[14/06/2012] News

Crisi della democrazia e trionfo della tecnocrazia

Riceviamo e pubblichiamo

Premetto che questo mio intervento non riguarda il Governo Monti e le sue scelte di politica economica, anche se bisogna dare atto agli sforzi diplomatici del premier, finalizzati a migliorare la comprensione tra gli Stati dell'Unione Europea. Un Governo di tecnici invocato da molti, al posto di un governo politico, per salvare l'Italia dal baratro finanziario, sebbene negli ultimi trent'anni abbiamo assistito inermi alla debacle della politica e della democrazia, condizionate dai colossi della finanza mondiale, i cui effetti hanno condotto le società occidentali verso una crisi eco sistemica, sociale e culturale, non solo economica.  Una crisi provocata da un modello culturale consumistico supportato da uno sviluppo scientifico e tecnologico, che ha condizionato il nostro pensiero, nostri stili di vita e tutte le nostre azioni.  Come sostiene Fritjof Capra nel saggio Il punto di svolta, «La crescita economica, nella nostra cultura, è inestricabilmente legata con la crescita tecnologica. Individui e istituzioni sono affascinati dai miracoli della tecnologia moderna e si sono convinti che ogni problema abbia una soluzione tecnologica. Sia che la natura del problema sia politica, psicologica o ecologica, la prima reazione, quasi automaticamente, consiste nel far fronte ad esso applicando e  sviluppando una qualche nuova tecnologia».

Da cosa nasce questa concezione apparentemente liberatoria?  Come ha scritto Marcel Proust in Sodoma e Gomorra «Le società come le folle sono dominate dall'istinto d'imitazione e dalla mancanza di coraggio».  Oggi siamo al punto di affidare persino i nostri sentimenti e le nostre passioni nelle mani della tecnologia informatica, per cui crediamo di trovare amici nel mondo virtuale dei social network, oppure attraverso l'inestricabile reticolo elettromagnetico fatto di wireless, wi-fi, telefonini e iPad. In una delle sue più recenti opere "I sette saperi necessari all'educazione del futuro" Edgar Morin così scrive «La situazione della nostra terra è paradossale. La comunicazione trionfa, il pianeta è attraversato da reti, fax telefoni cellulari, modem, internet. La coscienza di essere solidali nella vita e nella morte dovrebbe ormai legare gli umani gli uni agli altri. Tuttavia l'incomprensione rimane generale».

«La comunicazione - prosegue Morin - non produce comprensione ... Vi è il rumore che parassita la trasmissione dell'informazione che crea il malinteso e il non inteso».  E allora da dove proviene questo "rumore"? Esso è prodotto da uno sviluppo industriale e tecnologico che non considera affatto la complessità dei sistemi viventi, che non tiene conto delle interrelazioni biologiche e sociali,  delle  necessità di sopravvivenza , delle relazioni e delle passioni umane.  Uno sviluppo tecnologico che guarda solo al profitto fine a se stesso, sfruttando in modo massiccio le risorse del pianeta a favore di una minuta percentuale di popolazione.  «Le attuali tecniche - ha scritto il medico igienista, Aldo Sacchetti - interferendo nella biosfera anche a livello microscopico, lacerano, sconvolgono, falsificano, in profondo il continuum informativo tessuto dalla vita nel tempo e nello spazio».   

A questo punto dobbiamo precisare che la moderna tecnologica, dalla rivoluzione industriale fino a quella della microelettronica e delle nanotecnologie, affonda le sue radici nei paradigmi della scienza galileiana e newtoniana, una visione dove prevale il pensiero lineare, dove trionfa una concezione meccanicistica e deterministica della natura, dove l'intelleggibilità dei fenomeni passa attraverso i principi di causalità, di riduzione e di separazione, dove l'ordine è concepito come una macchina perfetta, paragonabile all'assolutezza di Dio. Questo paradigma e questi principi, insieme al metodo sperimentale, che considera il tempo, e quindi la storia, semplici variabili numeriche, sono ancora alla base dello sviluppo scientifico e tecnologico. Tale paradigma ha suggellato il trionfo prometeico del potere della ragione, rendendo l'uomo, con le sue esperienze e le sue passioni, un alieno dal suo contesto biologico, storico e culturale.  Tale concezione della scienza ha disconosciuto negli ultimi trecento anni la totalità complessa fisica, biologica, antropologica, economica del Pianeta, «in cui la vita è un'emergenza della storia della terra e l'uomo un'emergenza della storia della vita terrestre». 

La visione separatrice e riduttiva della natura ha consegnato agli specialisti e tecnocrati il potere della conoscenza alimentando la frammentazione delle discipline, la creazione delle iperspecializzazioni, l'appropriazione da parte di esperti e scienziati,  arroccati dietro il baluardo dei loro linguaggi esoterici , di un numero crescente di problemi vitali.  Anche l'ordinamento delle pubbliche amministrazioni ha subito la stessa sorte con la creazione di una miriade di nuovi enti e di aziende pubbliche, con l'idea di migliorare la gestione della cosa pubblica attraverso una specializzazione e suddivisione delle funzioni, ma con l'effetto di sovrapporre le competenze e di moltiplicare i centri di spesa.   Pensate a cosa accade nel campo dei sistemi sanitari dove impazza il mercato degli esami strumentali e la corsa agli specialisti, perdendo molto spesso di vista l'integrità complessa dell'organismo umano.   Il biologo austriaco Ervin Chargaff, che fra l'altro è stato lo scopritore delle regole di accoppiamento delle basi del DNA, così si esprime a proposito dello specialismo «Nella nostra caccia ai frammenti abbiamo smarrito le sublimi fattezze della vita. Adesso addirittura non si tratta più di numerare i frammenti, ma anche di individuarne la composizione. Non percepiamo più figure viventi,  ma solo componenti delle quali, però, vogliamo sapere sempre di più: ne è dovuta passare di acqua sotto i ponti prima che potessimo arrivare a questo punto. All'inizio c'erano più stregoni che apprendisti, poi sono rimasti gli apprendisti, e alla fine le scope». Orbene, la separazione delle discipline rende incapaci di comprendere la complessità, di cogliere "ciò che è tessuto insieme", come gli ecosistemi, le organizzazioni sociali, le culture, la stessa democrazia, con l'effetto di espandere a dismisura i costi del sistema. Tuttavia, molti altri scienziati, consapevoli della crisi del paradigma deterministico e riduzionistico, a partire dal secolo scorso hanno proposto una revisione epistemologica. Secondo il noto filosofo della scienza Karl Popper, la concezione di una natura passiva e manipolabile, soggetta a leggi deterministiche, non solo rende impossibile l'incontro con la realtà, che è la vocazione della nostra conoscenza, ma mette in discussione la libertà umana.   Il premio Nobel  Ylia Prigogine , nella sua fondamentale opera La nuova Alleanza,  afferma che la scienza ha l'obbligo di impostare un nuovo metodo fondato su un dialogo con la natura, con la sua inestricabile complessità,   nella consapevolezza della nostra appartenenza. «Capire la natura - scrive Prigogine - è uno dei grandi progetti del mondo occidentale. Esso non va confuso con quello di controllarla. La conoscenza non solo comporta un legame tra chi conosce e ciò che è conosciuto, bensì esige che questo legame crei una differenza tra passato e futuro».  Un dialogo che presuppone il superamento della ragione scientifica contrapposta alla dimensione umanistica.  Più recentemente lo stesso Prigogine, nel suo saggio La fine delle certezze, evidenzia che la scienza classica con il suo meccanicismo rigido, entra in collisione con una cultura politica fondata sulla democrazia;  citiamo le sue parole  «democrazia e scienze moderne sono eredi della stessa storia, la quale condurrebbe però a una contraddizione se le scienze facessero trionfare una concezione deterministica della natura, mentre la democrazia incarna l'ideale di una società libera»;  poi  aggiunge «come si può concepire la creatività umana, o come si può pensare l'etica in un mondo deterministico?» Citando Richard Tarnas, Prigogine richiama la passione per l'intellegibilità del mondo occidentale che è quella di «ritrovare la propria unità con le radici del proprio essere».

Allora, l'emergere di un nuovo paradigma, fondato sulla cultura e sulla gestione della complessità, deve contaminare anche il campo della scienza economica, il cui compito è migliorare il benessere della società. Purtroppo nell'economia aziendale prevale ancora la ricerca ossessiva di produttività, con l'unico obiettivo di incrementare il valore per gli azionisti, scaricandone i costi sulla collettività. Anche questa cultura è figlia di quel paradigma meccanicistico e riduzionistico, che si rivela nell'equazione sviluppo economico = crescita del benessere e che alimenta una corsa irrefrenabile verso la crescita infinita del PIL.  La nascita di un nuovo paradigma, come sostiene l'economista Alessandro Cravera, «significa, abbattere i confini delle discipline, i muri delle funzioni, gli steccati dei potentati del pensiero, gli iperspecialismi a favore di un pensiero contaminato, complesso, in grado di generare strategie economiche e aziendali sostenibili e prive di ripercussioni negative future».

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