[19/06/2012] News

Ricerca in Italia, quel decreto non รจ per lo sviluppo

E infine la montagna ha partorito il topolino. Il "decreto per lo sviluppo" voluto dal ministro Corrado Passera e approvato dal governo alla fine della scorsa settimana concede poco alla ricerca scientifica: il 35% di credito d'imposta, con un limite massimo di 200.000 euro, per le imprese che assumono giovani qualificati. Si calcola che in questo modo dovrebbe essere stimolata l'assunzione di 4.000 laureati con meno di 28 anni. I migliori, come vuole una retorica oggi molto in voga.

Non è questo che ci si aspettava dal "decreto per lo sviluppo", che pure mobilita - a detta di Corrado Passera - circa 80 miliardi di euro. Con questa goccia tolta dall'oceano dei mali italiani, non si risolve né il problema della ricerca, né il problema dei giovani, né il problema dell'economia.
Quello della ricerca è un tema strategico per l'Italia. Il mondo è entrato, infatti, nell'economia della conoscenza che si fonda sulla scienza e sull'innovazione tecnologica che dalla scienza deriva.

È questa economia, da qualche decennio, la driving force dell'economia mondiale. È questa la driving force sia per i paesi di antica industrializzazione sia per le economie emergenti. Anche in Europa, i paesi che meglio stanno sopportato la crisi sono quelli (Germania in testa) che hanno una specializzazione produttiva fondata sulla conoscenza (knowledge-based economy, dicono gli esperti anglofoni).

L'Italia sembra non interessato a far parte di questa economia. Il nostro paese, infatti, investe in ricerca e sviluppo (R&S) poco più dell'1% del Prodotto interno lordo: la metà della media mondiale. Ma, soprattutto, sono le nostre imprese che non fanno ricerca: a parità di fatturato, un'impresa italiana investe in R&S l'80% in meno di un'impresa americana. Il "decreto per lo sviluppo" non modifica di una virgola questa situazione. L'Italia non si sposta di un millimetro verso la società della conoscenza.

Non affronta - non in maniera tale da incidere significativamente - il problema del lavoro per i giovani. Lo stimolo ad assumere giovani brillanti laureati va nella direzione giusta. Ma il numero delle assunzioni (4.000) è, appunto, una goccia nel mare (ogni anno si laureano decine di migliaia di giovani) della disoccupazione giovanile qualificata. Se è vero che il decreto mobilità 80 miliardi, ci saremmo attesi un intervento paragonabile a quello francese (5 miliardi l'anno di credi d'imposta): dunque di almeno un ordine di grandezza superiore.

Il "decreto per lo sviluppo", infine, non si pone la domanda "quale sviluppo?". Se è vero - ed è difficile negarlo - che i problemi dell'Italia siano ampiamente dipendenti dalla specializzazione del suo sistema produttivo (centrato sulla media e bassa tecnologia) che subisce la concorrenza di paesi a più basso costo del lavoro, ciò che occorrerebbe fare è avviare una titanica impresa di cambiamento di questa vocazione, nella direzione di produzioni a sempre più alto valore di conoscenza aggiunto (ed ecologicamente sostenibili).

Questo cambiamento non può essere realizzato da un semplice decreto, sia pure ambiziosamente battezzato "per lo sviluppo". Ma quello che ci si poteva/doveva attendere era almeno la dimostrazione della consapevolezza del problema e un primo, piccolissimo passo verso la sua soluzione. Nel decreto del governo dei tecnici non c'è traccia né dell'una ne dell'altra cosa.
Ancora una volta l'Italia si ostina a non riconoscere le cause profonde dei suoi mali e non accenna, di conseguenza, a una qualche sia pur timida terapia.

 

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