
[26/06/2012] News
Di che cosa parliamo, quando parliamo di economia? Una delle definizioni classiche induce a considerare l'economia come quella disciplina che studia la migliore allocazione di risorse scarse al fine di soddisfare fini alternativi, i bisogni umani. In poche parole, la definizione di economia racchiude due assi portanti di questa scienza sociale, puntualmente ignorati: il primo punto riguarda la finitezza delle risorse, implicita nello studio dell'economia ma sepolta dall'insano desiderio di crescita materiale infinita. Il secondo punto, invece, è inerente la dimensione della scelta.
Date le risorse materiali a disposizione in un certo momento - confidando nella prospettiva di un ampliamento o una differenziazione di questo bacino, grazie all'evoluzione tecnologica - non esiste un'unica o migliore dimensione possibile per una loro allocazione. Tutto, a questo punto della storia, ruota infatti attorno ad una domanda politica ed etica: migliore per chi/cosa?
L'economia, dunque, è tutta una questione di scelte, al di là dell'apparenza dei diktat del mercato, possibili all'interno dell'attuale paradigma socio-economico solo perché così disegnato da mano umana, e non da chissà quale entità astratta. Da qui la necessità dell'economia ecologica - primo esempio di scienza post-normale, complessa ed aperta - di dedicarsi, per costruire un modello alternativo e sostenibile, allo studio delle modalità di scelta che ci accomunano come specie umana.
Su queste pagine abbiamo più volte ripreso assunti provenienti dalla branca dell'economia comportamentale o della neuroeconomia, che legano l'economia a doppio filo al funzionamento della mente umana. In questo campo, un'autorità di calibro internazionale rimane certamente lo psicologo Daniel Kahneman (Nella foto), noto proprio per i pioneristici studi sul tema condotti insieme al collega Amos Tversky, e dai quali è scaturita quella teoria delle decisioni economiche battezzata prospect theory.
Che c'entra tutto questo con la sostenibilità? C'entra moltissimo, come è facile intuire leggendo la recente intervista concessa da Kahneman al quotidiano spagnolo ABC. Il premio Nobel per l'economia del 2002 - che esordisce affermando modestamente: «Non sono un economista, un esperto su questo» - sottolinea una volta di più come «Prendere le cose sul serio implica un elemento emotivo. Le emozioni sono evocate più rapidamente e con maggior intensità per le cose immediate. Le democrazie funzionano così, per esempio. La gente è costretta a pensare a breve termine. Si tratta di uno dei grandi problemi delle democrazie, anche se i sistemi che non sono democratici... hanno altri problemi».
Ci troviamo così naturalmente inclini a sgusciare via di fronte a minacce lontane nel tempo (e nello spazio): «Le persone sono molto sensibili alle pressioni ed alle conseguenze immediate che ne conseguono. Gli effetti a lungo termine sono più astratti e più difficili da tenere a mente. Ad esempio, il riscaldamento globale: quando la minaccia si realizza nel tempo, sarà troppo tardi per reagire». Proprio questo meccanismo porta a inedia politica e superficialità da parte della maggioranza dei cittadini nei confronti di problemi centrali per il nostro presente e prossimo futuro, che oltre l'apparenza ci riguardano molto da vicino, e richiederebbero azioni decise. Ciò che, ad esempio, è mancato a Rio+20, la Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, appena terminata in una bolla di sapone.
Eppure, come uomini, da sempre ci dimostriamo capaci di rivolgere la nostra attenzione al futuro, e di adeguare i nostri comportamenti a queste visioni. Basti pensare alla presa che le religioni sono in grado di esercitare, e dalle quali - anche in seno alla razionalissima civiltà occidentale - in passato sono nati legislazioni, eserciti e stili di vita in onore ad un paradiso (o per timore di un inferno) che si sarebbe materializzato solo una volta passati a miglior vita. Abbandonando qui ogni velleità teologica, una spinta fondamentale a questo tipo di scelte derivava (deriva ancora oggi, talvolta) dall'impulso a conformare la propria esistenza ad un'ideale di virtù, come anche dalla volontà di evitare una punizione terribile all'interno di danteschi ed infernali gironi, certi di essere osservati ad ogni passo falso commesso in vita.
Come il sociologo Mauro Magatti scrive su la Repubblica, parlando a proposito della ricostruzione dopo il terremoto in Emilia (che presenta un'emergenza anch'essa già oltre i "limiti della notiziabilità" dei media, allontanata dal sentimento dei cittadini e quindi come scomparsa), «come moderni sappiamo che la virtù da sola non basta. Dobbiamo far conto su di essa, ma anche sostenerla. Stimolarla», tramite la capacità di trasformare «il problema di pochi in una occasione di innovazione per molti (al limite per tutti). La rimozione, infatti, prevale quando un problema viene affrontato in chiave puramente ripartiva, come un costo. L'innovazione, invece, trova la sua strada quando da un problema sociale o da un disastro ambientale nasce lo stimolo per migliorare i rapporti e gli scambi all'interno di un gruppo e con l'ambiente circostante [...] La condizione per la ricostruzione è quella di tornare a distinguere un costo da un investimento, passando da un modello incentrato sul consumo ad uno centrato sulla produzione di valore».
Ecco che la scienza della sostenibilità, è ovvio, non può certo (anche soltanto in quanto scienza, appunto) ambire o tendere ad una dimensione fideistica o totalitaria - da evitare come una degenerazione cancerosa - ma indubbiamente si trova di fronte alla necessità di penetrare in modo più incisivo nel dibattito politico e sociale quotidiano, al momento ancora troppo blando. Si evidenzia qui la necessità di una comunicazione sul tema della sostenibilità più efficace e capillare, accompagnata ad un'azione legislativa di controllo ed indirizzo: informazione ed emozione devono procedere di pari passo per modellare un'azione politica costruttiva e condivisa. Ma il guaio vero, come stiamo evidenziando da un po', è che ad essere del tutto esaurita pare essere proprio questa risorsa primaria dell'uomo: la politica appunto, intesa come governo della polis.