[14/08/2012] News
In questo torrido agosto, se la voglia di accendere dibattiti sulla politica industriale del Paese resiste debolmente è solo per il pungolo dell'acciaio. L'emergenza che si sta consumando (da decenni) all'Ilva di Taranto è arrivata al punto di rottura, e non può più essere ignorata. Fuori da questa ristretta cerchia, pensiero più pensiero meno, è il deserto.
Il (ri)lancio di un'industria sostenibile sembra l'unico appiglio concreto che eviti all'Italia di affondare nelle sabbie mobili della crisi. Nonostante gli sforzi profusi in questi mesi e anni, i segnali continuano a non essere incoraggianti: l'asticella del debito pubblico sale ancora, ormai vicinissima alla vetta dei 2mila miliardi di euro (siamo a quota 1.972,9 miliardi, dato della Banca d'Italia), nonostante l'aumento delle entrate tributarie.
Complice il clima di pre-campagna elettorale, in Italia - come negli Usa o anche in Germania - i temi più caldi nel dibattito politico non sono anche i più cogenti. Come al solito, tranne rari sprazzi di colore, la spettacolarizzazione prevale tristemente sulla sostanza. Di concreto sono rimasti solo i dati: la Stampa informa che «la produzione industriale italiana è crollata a giugno, quando, rileva Eurostat, ha registrato un -8,2% rispetto allo stesso mese del 2011. E' il dato peggiore dell'intera Europa a 27 (-2,2%) e dell'Eurozona (-2,1%). In Germania la flessione è stata dello 0,4%, in Francia del 2,6%, nel Regno Unito del 4,6%».
Sono numeri chiari quanto tragici, ma difficili da masticare per il grande pubblico, al quale - in un processo di continua infantilizzazione del cittadino - si preferisce rivolgersi catalizzando l'attenzione mediatica. L'ultimo lavoro della politologa Nadia Urbinati, Dalla democrazia dei partiti al plebiscito dell'audience (sintetizzato oggi a firma dell'autrice su La Repubblica) affronta di petto questo nodo: «Il declino della democrazia del partito politico e la crescita della democrazia del pubblico corrisponde a una evidente personalizzazione della leadership e dello stesso discorso democratico a cui fa eco una concezione della politica come macchina per la creazione della fiducia nel leader».
Una forma scadente di partecipazione politica, che punta a salvaguardare l'interesse del singolo più che a costruire un'alternativa politica condivisa.
L'Italia rimane scenario preoccupante di questa tendenza, ma non è certo il solo Paese a esserne soggetto. Il cowboy messo in campo come vicepresidente di Mitt Romney in caso di un assalto a buon fine alla Casa Bianca è Paul Rayan, uomo politico che - scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera - ha «alcune delle caratteristiche che molti elettori, non soltanto americani, sembrano apprezzare in questo momento».
In particolare, «è giovane» ha «il talento del grande comunicatore» ed è trincerato dietro le «posizioni più radicali della famiglia politica (la destra repubblicana). Non ha dubbi». Di nuovo, una scarsa predisposizione al confronto coperta da ammiccamenti agli istinti più bassi del pubblico politico.
Forme più costruttive di coinvolgimento attivo della cittadinanza nelle decisioni politiche vengono invece trascurate. Analizzando l'importanza della Mitbestimmung (la co-determinazione dei lavoratori, nelle strategie aziendali) nel sistema produttivo tedesco, il Manifesto osserva che «non a caso le analisi dell'European trade union institute, il centro studi europeo dei sindacati, indicano che nell'Unione europea 12 Paesi su 27, soprattutto nell'area renana e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), hanno introdotto forme avanzate di co-determinazione: e questi paesi sono anche quelli in cui si registra la maggior occupazione, più reddito dal lavoro, rapida innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale».
Un modello dirigista di gestione della politica economica, dove l'evoluzione del tessuto industriale sia deliberatamente rivolto nella direzione indicata dalla bussola della sostenibilità è il contraltare che dall'alto deve dettare i tempi al resto della macchina. Si tratta di un impegnativo voltafaccia, ma come osserva il premio Nobel per la pace Muhammed Yunus sulle pagine dell'Unità, è necessaria in primo luogo una «"rivoluzione mentale", che porta con sé un diverso approccio sistemico all'emergenza ambientale». Un lungo processo, del quale - se ancora non si vede la fine - sarebbe assai utile vedere l'inizio.