[17/08/2012] News

A Taranto come in Europa, l’immobilismo è frutto del balletto di parole inutili

Non è per niente facile procedere a passo spedito quando non sappiamo dove vogliamo andare. È un po' la sensazione che si immagina potrebbe provare l'Europa, se ancora venisse rappresentata racchiusa in forma umana, come nella mitologia greca dalla quale prende il nome. Se l'Unione europea rimane sveglia, in questo caldo agosto, è perché si trova punzecchiata dai tafani dei mercati, non per altro. Tutto il dibattito attorno al suo presente e al suo futuro ruota attorno alla pressione finanziaria cui è sottoposta, e nel mentre vivacchia(mo) in un interregno, senza sapere come muoversi.

Per disegnare un orizzonte europeo non possiamo limitarci ad usare lo spread come righello, poiché una nazione non è un conto in banca. Non solo, almeno. Da questo punto di vista è particolarmente interessante il colloquio de La Repubblica con Enzo Moavero - attuale ministro italiano per gli Affari europei - che afferma: «È arrivato il momento di alzare lo sguardo oltre la crisi, di affrontare con maggiore attenzione, anche critica, un dibattito profondo in Italia su quello che deve essere l'Unione europea del domani. Ed è chiaro che durante e al termine di una simile riflessione il Parlamento e i cittadini dovranno essere chiamati ad esprimersi». Quella posta dal ministro non è questione di lana caprina, anzi. Ma, come cittadini ed istituzioni, specialmente in Italia, siamo pronti ad affrontare con serietà la realtà concreta che si trovano davanti?

A giudicare dall'entusiasmo suscitato nelle milizie leghiste dalla proposta del loro generale, nella veste di Roberto Maroni, non sembra: il segretario della Lega Nord ha recentemente proposto un «referendum consultivo nel quale i cittadini italiani possano esprimersi sull'euro», immaginando che, evidentemente, lo facciano con un pollice verso. Sorvolando sul trascurabile particolare che vede il progetto praticamente inattuabile (l'art. 75 della Costituzione recita: «Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali»), ciò che dovrebbe suscitare scalpore è in primis la furbesca leggerezza con la quale vengono proposti al largo pubblico temi di cruciale importanza per la vita quotidiana di ognuno.

Ha ragione a preoccuparsi Giuseppe Cacciatore, ordinario di Storia della Filosofia, quando dalle colonne dell'Unità avverte che «dal cattivo funzionamento e dal trasfigurarsi del rapporto tra democrazia e opinione pubblica discendono, in modo speciale nella realtà italiana, elementi di fondata preoccupazione per la tenuta e la forma stessa della democrazia». Gli effetti più evidenti di questa manipolazione della sfera pubblica, continua Cacciatore, «si possono individuare nella assoluta arbitrarietà e precarietà dei significati che hanno assunto alcune delle più classiche categorie della politica. Si pensi alla parola riforme» come esempio della massima vacuità: solitamente le riforme si invocano in ogni dove, ma quali riforme, e di come portarle avanti, poco si capisce.

Dall'inquinamento lessicale a colpevoli forme di balbuzie, anche il mondo ambientalista affronta un percorso ad ostacoli. L'insieme degli ecologisti - per colpa di una fetta minoritaria avvezza (avvezzata dalla politica marketing) alla sola negazione (anche sacrosanta, magari), e con deficit enormi sulla "pars construens" che non sia qualche salto (lessicalmente logico ma fisicamente illogico) - viene dipinto come l'accozzaglia di coloro che rifiutano lo sviluppo del Paese in nome di una «sensibilità da anime belle», come la descrivono con sarcasmo Gianni Mattioli e Massimo Scalia affondando la vicenda dell'Ilva dalle pagine del Manifesto.

L'ambientalismo scientifico è altra cosa, e permette di sperare e lavorare nella (e per la) sostenibilità come epicentro di qualsiasi idea di progresso nel (e del) terzo millennio. Ma se non riusciamo a verbalizzare e comunicare se non per slogan, a Taranto come in Europa, rimaniamo intrappolati all'interno di insanabili quanto inutili contraddizioni. La democrazia incespica, l'opinione pubblica si fa cieca. «Forse sarebbe il caso di incominciare con una proposta a costo zero - suggerisce Cacciatore - la costituzione di una commissione, per esempio congiunta, tra Accademia della Crusca e Accademia dei Lincei, incaricata di controllare (un controllo, per carità, non censorio, ma semplicemente linguistico-concettuale) usi e abusi delle parole della politica». Basterebbe forse molto meno: per non essere vittime del linguaggio del più viscido e rapace di turno, accendere il cervello e prima di ascoltare (e di parlare) è un accorgimento che non passa mai di moda. 

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