[22/08/2012] News

I giudizi delle agenzie di rating? Parole (e numeri) al vento

In questo torrido fine agosto arriva finalmente uno zuccherino da parte delle agenzie di rating circa l'operato del governo Monti. Il direttore operativo di Fitch, David Riley (indagato dalla Procura di Trani per manipolazione dei mercati finanziari), si è espresso dichiarando che l'esecutivo «in questo momento ha moltissima credibilità politica», e spera che faccia «progressi il più velocemente possibile», spingendo «non tanto sull'austerità, sulla quale è stato fatto abbastanza, ma sulle riforme» per la crescita economica. Riley, sottolinea, «l'Italia correrà dei rischi con la fine del governo Monti».

Solo ad inizio estate il parere di Fitch era sostanzialmente diverso, dato che appena un mese fa - era il 19 luglio - l'agenzia statunitense confermava il rating A- (con out look negativo) per il Bel Paese, affermando nel comunicato dell'annuncio di aver cercato di guardare «oltre le attuali condizioni economiche e finanziarie e di tener conto delle recenti riforme strutturali e di quelle in prospettiva, che aumenteranno il potenziale dell'economia». Lo sguardo dell'agenzia di rating è evidentemente molto corto, perché nell'arco di trenta giorni non è stato reso noto nessun provvedimento governativo tale da giustificare un voltafaccia di questa portata. Data la posizione di alto prestigio che le agenzie di rating ancora oggi rivestono all'interno dei mercati finanziari, l'ennesima contraddizione in termini di Fitch dovrebbe destare più di qualche preoccupazione. I malpensanti potrebbero intravedere un tentativo esplicito di eterodirezione della politica italiana, ancor meno velato di quanto siamo ormai tristemente abituati a constatare: così fosse, sarebbe un colpo tremendo ai valori (e alla validità) della democrazia, continuamente e giustamente decantati a parole in terra italiana ed europea.

Del resto, con un occhio attento alle ormai prossime elezioni presidenziali Usa, solo Standard&Poor's approfitta dell'occasione ribadendo di non credere che «l'economia degli Stati Uniti e dell'Europa miglioreranno in modo significativo nel prossimo anno». È l'unica voce dissonante, in quanto proprio nel report dell'unica mancante al consesso delle "tre sorelle" (ossia l'agenzia di rating Moody's) si legge che l'Italia, in particolare, potrebbe tornare ad una dinamica del Pil ai livelli pre-crisi già il prossimo anno, nel 2013: le tre agenzie somigliano sempre di più alle tre teste di un Cerbero che si mordono tra loro.

Moody's si spinge ancora oltre, tracciando un pittoresco parallelo tra la crisi attuale dei paesi periferici dell'eurozona con la crisi bancaria che colpì i paesi scandinavi nei primi anni ‘90: «Abbiamo trovato significative similitudini fra la crisi dell'Italia, nonché di Spagna e Portogallo, con quella che colpì la Svezia all'inizio degli anni '90. La prima somiglianza è nell'intensità della recessione, non troppo violenta ma persistente. Prendendo e precedenti esperienze come benchmark, se alla Svezia occorsero tre anni per uscirne, altrettanti potrebbero bastare all'Italia e ai paesi iberici. Sempre che vengano portate a compimento le riforme strutturali che i tre Paesi, così come la Svezia, hanno intrapreso».

Parole dalle quali traspare in modo esemplare la piena visione economicista con la quale le agenzie di rating (in primis, ma non sono certo le sole) guardano alla crisi. Si parla delle solite, vaghe «riforme strutturali», come se queste fossero una formula unica e universalmente valida, tanto da non necessitare di essere specificata. La storia, la cultura, le peculiarità economiche e sociali del territorio svaniscono, tracciando con numeri i confini di un paese sul piatto riferimento del foglio di calcolo, sostituto moderno della carta geografica. Per dare un'occhiata fugace alla differenza che intercorre tra i due Paesi, Italia e Svezia, è utile osservare (vedi immagine, fonte Nens) l'andamento dell'indice di Gini (una misura della disuguaglianza) dei redditi disponibili durante il periodo che copre gli anni '80 fino all'alba del 2000 (il prima e il dopo della crisi degli anni '90, dunque). In Svezia, la disuguaglianza è salita, ma era fortemente inferiore a quella misurata in Italia, prima e dopo la crisi.

Evidentemente, non c'è un'unica maniera di portare avanti le «riforme strutturali» tanto invocate, e dagli strumenti e le idee dipendono i risultati. È proprio questo lo spazio di scelta democratica da preservare, e all'interno del quale lavorare per una politica di sviluppo inclusivo e sostenibile per gli anni presenti e futuri, in Italia, in Europa e nel resto del mondo. È uno dei pochi fazzoletti di terra libera che, se vogliamo, ancora ci rimane. Non possiamo permetterci di perderlo.  

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