[07/09/2012] News

Dentro i numeri del Rapporto Coop: il nuovo modello di sviluppo "sobrio" delle famiglie italiane

Se anche la grande distribuzione capisce che il consumismo non funziona più

Stavolta più dei numeri è l'analisi della crisi e delle conseguenze sui consumi che ci interessa dell'annuale rapporto della Coop. Molti i passaggi di interesse per la sostenibilità ambientale e sociale e soprattutto l'emergere chiaro di un nuovo modello di sviluppo difficilmente rinviabile, quando a tracciarlo è persino la grande distribuzione.  

Già il titolo della primo paragrafo della prefazione è tutto un programma: «La nemesi della crisi: dagli eccessi di spesa alla riduzione dei consumi». Quasi un'ammissione di colpa, diciamo provocatoriamente, visto che di fronte alla brusca caduta dei consumi del 2012, considerato «ultimo anello di una catena di eventi innescato dall'eccesso di spesa accumulato nell'economia mondiale negli ultimi anni», la tesi è la seguente: «Sia che fossero i consumi ipertrofici delle famiglie (soprattutto negli Usa) che gli sperperi delle finanze pubbliche (l'Italia in primis) la crisi è il risultato di una società che in diversi modi ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e, incoraggiata da un accesso al credito troppo facile, ha accumulato un impressionante stock di debito pubblico e privato. E' di una disarmante evidenza che non si raggiungerà un nuovo equilibrio sino a quando questo debito non sarà ricondotto a dimensioni più fisiologiche».

Una visione quasi montiana, tanto che si aggiunge: «In Italia tale aggiustamento, troppo a lungo rinviato, si è imposto nell'ultimo anno in maniera drammatica e ha preso la forma di una riduzione della spesa pubblica e soprattutto di una incremento della pressione fiscale sui redditi delle famiglie. Proprio sulle loro spalle è stato caricato da ultimo il peso di tale aggiustamento. Gli italiani sembrano aver colto, però, le ragioni profonde della crisi e l'ineluttabile necessità di risolvere gli squilibri che l'hanno generata. Sembrano, anzi, consapevoli di quanto ancora lunga e difficile sia la strada che conduce al ripristino di nuove condizioni di crescita per il Paese. Intimorite da questa realtà, sfibrate da oltre un decennio di difficoltà economiche, le famiglie italiane appaiono sfiduciate, in apprensione per il futuro, probabilmente infelici». 

Dopo anni di consumi drogati dal credito facile eccoci quindi all'esplosione della bolla dei consumi stessi e all'arrivo dell'infelicità. Ma attenzione, infelicità non è perché non si può più comprare, o almeno non è solo per quello: «I divari sociali che caratterizzano l'Italia spiegano certamente una parte importante del mancato benessere percepito nel Paese (...). Ma la felicità non ha però una esclusiva matrice economica, certamente reddito e ricchezza permettono una vita con minori difficoltà, ma il giudizio sul proprio benessere degli italiani appare legato (anche) ad altre dimensioni, affettive, sociali, demografiche. Ad uno sguardo più attento si nota che la mancata felicità degli italiani è legata al loro progressivo invecchiamento, alla sempre più diffusa assenza di figli, alla carenza di forti reti familiari e relazionali. Le analisi rivelano, infatti, che nonostante le difficoltà economiche i giovani e le famiglie con figli vivono una vita più soddisfacente e dichiarano un più elevato livello di felicità.

Emerge un quadro in cui, ridare serenità alle famiglie, farle guardare al domani con meno timore, incrementare la percezione del loro benessere, rappresenta al fianco del risanamento economico, una delle sfide più difficili per la società italiana dei prossimi anni. Una sfida da cogliere con politiche nuove, non solo pensando al mero incremento dei redditi, peraltro molto difficili da finanziare». Ed eccoci a quello che appare un vero contrappasso (che sa anche di catarsi) per uno dei colossi della grande distribuzione: «Un nuovo paradigma del consumo: risparmio, sobrietà, equilibrio, benessere. In questo quadro, la violenta riduzione della spese delle famiglie è legata non solo alle determinanti oggettive (disoccupazione, diminuzione dei redditi, imposizione fiscale, incertezza sul futuro) ma rivela anche una profonda revisione del concetto stesso di consumo e la ricerca di stili di vita più sostenibili. Il consumo smette di essere elemento identitario e di rappresentazione di sé e diviene sempre più strumento di soddisfazione dei bisogni e mezzo per vivere in modo confortevole.

Nel nuovo paradigma del consumo, innanzitutto, si tagliano gli sprechi e si rinuncia a tutto ciò che è superfluo. Le risorse così recuperate vengono indirizzate a tutelare quei consumi che permettono di risolvere i problemi della vita quotidiana e aumentano il benessere della famiglia. Gli italiani si sforzano di utilizzare gli oggetti e i beni di cui dispongono anche quando vi sarebbero le possibilità economiche per comperarne di nuovi. Il segnale più evidente di questo nuovo approccio è la netta riduzione delle spese per l'auto. Nel 2012 in Italia si venderanno lo stesso numero di auto degli anni '70 e i carburanti sono in riduzione di circa il 10% sull'anno precedente. Ma cade la spesa anche per gli elettrodomestici e l'arredamento, l'abbigliamento e anche l'alimentare. Oltre al taglio del superfluo, la riduzione degli sprechi è testimoniata dal calo degli acquisti di generi alimentari, dalla riduzione dei consumi di energia elettrica, gas e acqua, dai minori rifiuti prodotti. Contemporaneamente, però, gli italiani difendono la qualità intrinseca dei loro consumi e continuano a cercare servizio e benessere».  

Vuoi vedere quindi che la crisi ci ha portato, come spesso avevamo segnalato, a più miti consigli e alla scelta gioco forza di consumi più sostenibili se non altro per il portafogli? Come spiegare diversamente il fatto che «la dieta degli italiani» vede ora  calare «le quantità acquistate per difendere la qualità»? Pensate solo a questo passaggio del rapporto: «Ma il dato più sorprendente degli ultimi mesi è certamente la riduzione delle quantità acquistate. Le famiglie una volta messe in campo tutte le strategie di risparmio sinora già utilizzate anche nell'alimentare hanno ridotto gli sprechi e tagliato il superfluo. Si limitano gli sprechi attraverso un uso più attento delle quantità acquistate: lavatrici a pieno carico, riutilizzo degli avanzi di cibo, attenzione alle scadenze, confezioni più piccole e acquisti più frequenti, ritorno alle preparazioni domestiche. Si riducono i consumi più effimeri (bevande, snack e fuori pasto, prodotti ausiliari della detergenza). Tutto questo però tentando di difendere i valori del consumo alimentare: origine nazionale del prodotto, qualità intrinseca, attenzione al benessere e alla salute. In questo senso, in maniera contro intuitiva, crescono i prodotti a maggior valore unitario, continua l'ascesa dei prodotti salutistici e funzionali, si allargano i consumi bio, tengono le vendite di prodotti di più facile conservazione e consumo (salumi e formaggi, preparati pronti)». 

Se non fosse che questo cambiamento è stato imposto dal 10% dei ricchi sulle spalle di tutto il resto degli italiani, ci sarebbe quasi da dire grazie alla crisi. Perché anche se la crisi non ci fosse stata, questi risultati noi li abbiamo sempre auspicati per il bene della salute delle persone e dell'ambiente. Il guaio vero sono le conseguenze: ovvero, non avendo avuto l'opportunità di governare minimamente questi cambiamenti, le risposte a questi "virtuosi" cambi di stile di vita sono spiegati nelle ultime parole della prefazione: «La salute dell'industria alimentare è confermata dal buon andamento dei bilanci delle imprese che eguagliano le performance medie europee e addirittura migliorano negli anni della crisi. A differenza delle componenti produttive è invece il settore distributivo a subire maggiormente la crisi dei consumi. Negli ultimi anni si riducono di oltre il 3% i negozi alimentari italiani e la stessa Gdo per la prima volta vede fermarsi la dimensione totale delle superfici di vendita moderne. Per la prima volta le chiusure (soprattutto al Sud e nei formati più piccoli) superano le aperture (in particolare discount e superstore) e segnalano una diffusa condizione di difficoltà delle imprese. Le performance di bilancio delle grandi imprese distributive presenti in Italia sono molto distanti dalla media europea ed in netto peggioramento. Peraltro, la nuova disciplina sui pagamenti e le relazioni di filiera (cosidetto art.62) costituirà un ulteriore stimolo al processo di ristrutturazione del settore con un presumibile incremento delle chiusure e possibile espulsione di manodopera».

Se si lascia fare il mercato, quindi, a una sobrietà nel cambio di stile di vita corrisponde un calo immediato dell'occupazione ed un predominio dei monopoli commerciali. Una riconversione dell'economia in chiave ecologica vuol dire, invece, programmare e mettere i mercati nella condizione di essere "al servizio del popolo", anche attraverso una riduzione e una commercializzazione più vicine al cittadino-consumatore al contrario di quanto accade oggi. 

E tutto ciò vuol dire anche efficienza e risparmio nell'uso dell'energia e della materia, e quindi anche puntare sulla rinnovabilità dell'una (fotovoltaico, solare, eolico, ecc) e dell'altra (riciclo). Ma è chiaro che questo deve avvenire all'interno di un modello di sviluppo dove la crescita sic et simpliciter di tutto e di più non è più il totem, ma si è in grado diversamente di orientare la crescita con il criterio direttore della sostenibilità sociale e ambientale. La crisi, purtroppo anche con un bagno di sangue, ci sta facendo vedere che si può cambiare e che la strada intrapresa in passato era assolutamente sbagliata. Ai sopravvissuti il dovere di portare a compimento questo processo.

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