[02/10/2012] News

Crisi ecologica ed occupazionale, orfane di una politica dei tempi lunghi

«La produttività? Senza innovazione tecnologica diventa coperta ideologica per coprire lo sfruttamento dei lavoratori»

È una triste alba, quella di questo ottobre 2012. Ci troviamo ad inoltrarci nell'analisi dell'incertezza che il presente ci offre senza due figure che è possibile annoverare tra i sapienti del nostro tempo: il biologo ed ecologista Barry Commoner e lo storico Eric Hobsbawm. Proprio quando le ragioni della storia e quelle dell'ecologia trovano un punto di contatto in quello che è il mondo del lavoro, immerso nella sua crisi occupazionale fatta di precarietà e contrapposizioni tra il diritto alla salute, quello all'ambiente sano e quello ad un posto di lavoro sul quale poter fare affidamento. È in questo contesto che il 4 e 5 ottobre si va a formare la Società italiana di storia del lavoro, quando a Milano si terranno l'assemblea di fondazione ed un seminario di studi del quale tra gli altri sarà protagonista Luca Baldissara, storico contemporaneo dell'Università di Pisa: a lui greenreport.it si è rivolto per approfondire alcune delle tematiche che angosciano i lavoratori italiani e non solo.

Si costituisce un'associazione italiana di storia del lavoro. Quale può il suo contributo nel panorama culturale nazionale?

A partire dagli anni '90 molti autori hanno celebrato la cosiddetta "fine del lavoro" e, in contemporanea, si sono andate trasformando radicalmente le strutture nel mercato del lavoro. Partendo da qui, l'attenzione degli studiosi per queste tematiche ha subito una marcata flessione, che si è tradotta in un deficit istituzionale. L'idea della società è quella di richiamare risorse per affrontare i temi di storia del lavoro in una funzione che potremmo dire proprio para-istituzionale, che si occupi dei modi di produzione di storia del lavoro, recuperando il marcato ritardo italiano su questo terreno, in un contesto di crisi che comunque non abbraccia soltanto il nostro Paese.

Man mano che prosegue la crisi economica, sale anche il timore che il lavoro diventi davvero soltanto materia di studio per gli storici. Una prospettiva temporale più ampia può però aiutarci a comprendere meglio il presente: come si colloca questa crisi occupazionale in una prospettiva storica?

Tra passato e presente c'è un continuo scambio. In quanto storici, è proprio il presente che ci pone delle domande e ci aiuta a guardare al passato con altri occhi, ed il passato a sua volta è un faro sul presente. Da storico, vorrei sottolineare che "l'oggetto" lavoro continuamente si ridefinisce: certamente non siamo nell'epoca che sancirà la fine del lavoro - essendo anzi il lavoro quella che potremmo definire una qualifica stessa dell'essere umano, che si trasforma ma non può scomparire - ma il mondo del lavoro si sta trasformando come già altre volte è avvenuto in passato. La stessa affermazione della società industriale è stata percepita come una sovversione di rapporti sociali e culturali secolari. Credo che adesso si stia vivendo una trasformazione analoga, che ha dei veri aspetti di sovversione. La trasformazione del mercato del lavoro si accompagna alla volontà di chi offre lavoro di aumentare i margini di profitto, e sono qui a dimostrarcelo i dati che riportano la retribuzione di un lavoratore precario pari al 30% in meno rispetto ad un non precario: il profitto del datore di lavoro è più alto del 30% nel primo caso. Sulla stessa scia si inserisce il fenomeno della delocalizzazione, comunque non nuovo.

Dopo "spread", la parola d'ordine in economia sembra essere "produttività". Nonostante gli enormi mutamenti intercorsi negli ultimi nell'organizzazione del lavoro, non pensa che sia l'ora di aggiornare la stessa definizione di "produttività"?

Credo che la produttività, soprattutto nel caso italiano, andrebbe depurata da una sua forte matrice ideologica. La produttività diventa così la coperta che viene messa sopra a giustificare un'intensificazione dello sfruttamento del lavoratore: la produttività diventa così non dico un ricatto, ma una giustificazione ideologica. Certamente, esiste comunque un problema legato ad una produttività di sistema, all'innovazione tecnologica. Non è la prima volta che si pone questo problema, nel nostro Paese. In prima battuta si è sempre mirato a scaricare la questione della produttività nei termini di maggiori sacrifici per i lavoratori. Senza risorse, senza cultura, senza investimenti in ricerca e se gli industriali non sono disponibili a reinvestire margini della loro quota di profitto sul terreno dell'innovazione tecnologica delle trasformazioni produttive favorendo piuttosto la facile delocalizzazione è chiaro che il controllo della forza lavoro prevarrà sulla cultura dell'innovazione e tutto ciò che questa porta con sé.

Un'altra peculiarità di questa "grande depressione" in corso è il porre su un piano di scontro l'ambiente e il diritto al lavoro: in Italia, particolarmente eclatante è il caso Ilva. Storicamente, cosa possiamo imparare per riuscire a sciogliere il nodo di questa contrapposizione forzata?

Negli ultimi secoli abbiamo vissuto l'ambiente come erogatore di risorse che andavano sfruttate fino all'ultimo, un comportamento per alcuni versi simile a quello portato avanti nei confronti dei lavoratori. Questo è ancora oggi un grande problema, coi tempi della vita quotidiana che configgono con i tempi lunghi della trasformazione e di degrado ambientale. Anche quando i lavoratori hanno acquisito consapevolezza in questo senso, in molti casi hanno accettato di morire domani pur di riuscire a vivere oggi, loro e i loro familiari: è un dramma che non può essere banalizzato. Non si può pretendere che se ne facciano carico in primo luogo i lavoratori.

Si sente il bisogno dell'intervento della politica e delle istituzioni perché le compatibilità ambientali divengano anche compatibilità di ordine economico. Anche la politica però ha enormi difficoltà su questo piano: avremmo bisogno di una politica nel senso nobile del termine che riesce ad emanciparsi, che sappia farsi carico di questi tempi lunghi. In fondo, è già successo in passato: culturalmente, il keynesismo è stato anche questo, costruendo un modello che pensava alla costruzione di reti di relazione tra governo e cittadini, tra politica ed economia, reti che avevano una prospettiva che non era soltanto rivolta all'immediato. Non sarà un caso che nella seconda metà del ‘900 si sia realizzata quella che Eric Hobsbawm chiamava "età dell'oro del capitalismo".

Negli ultimi decenni abbiamo assistito all'escalation di una rivoluzione: da lavorare per vivere, siamo passati al lavorare per consumare. L'acquisto come fine ultimo. Adesso, però, per i consumi siamo in una fase di decrescita forzata. Pensa possa rappresentare una svolta nel nostro modo di rapportarci alle merci?

È difficile prevederlo, ma è comunque necessario ipotizzare un nuovo modello di consumo che sia in primo luogo sostenibile, nel rispetto degli equilibri naturali e dei limiti della crescita di cui abbiamo tanto discusso negli ultimi 30-40 anni. Questo modello individualistico, portato all'eccesso, ha infatti già mostrato i suoi limiti. Già Henry Ford aveva capito che tramite un miglioramento salariale dei lavoratori sarebbe tornato agli stessi lavoratori: è quello che è stato il modello di diffusione dell'auto privata, un modello vincente per gran parte del ‘900 nel mondo occidentale, ma del quale gli ultimi anni sembrano drammaticamente mostrarci i limiti. Un limite quantitativo, che guarda alla popolazione mondiale e alla distribuzione delle risorse all'interno di un sistema chiuso come quello rappresentato dalla Terra.

Siamo arrivati al punto d'insostenibilità di questo modello. Non abbiamo più di fronte innalzamenti del tenore di vita o ampliamenti della capacità di consumo e, posto che gli storici non dovrebbero fare previsioni, perché quando le fanno sbagliano, credo in effetti che questo modello di produzione e consumo - con una centralità sempre più accentuata del consumo sulla produzione - non sarà più riproducibile in futuro. Sembra però che la politica, in tutto il mondo occidentale, non abbia più le capacità di confrontarsi con questi grandi problemi... questo è un nodo molto serio, che potrebbe avere ricadute serie nei prossimi anni.

Se le tensioni s non troveranno valvole di sfogo non potranno infatti che aumentare. Le nostre categorie per leggere il mondo interpretarlo e governarlo, nella profonda trasformazione che è questa crisi di civiltà, devono profondamente essere rielaborate e riconsiderate. Anche gli storici, di quando in quando, se ascoltati, potrebbero ricordare che i processi in corso e le loro caratteristiche hanno dei precedenti storici e che il grosso impegno cui ci troviamo di fronte dovrebbe essere quello di affinare i nostri strumenti e di prendere atto di queste trasformazioni non stando sulla difensiva, ma cercando di rivoluzionare quelli che sono i nostri paradigmi culturali.

 

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