[19/10/2012] News

Nubi scure dal celeste impero: lo sviluppo sostenibile ai tempi di una Cina "lenta"

L'economia cinese cresce del 7,4% percento in questo terzo trimestre 2012, rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Numeri da record per l'anemico andamento del Pil occidentale, ma per il gigante asiatico si tratta del dato più basso da tre anni a questa parte. Abbastanza per far scattare l'allarme, se non in Cina, nei suoi principali partner commerciali sparsi per il mondo.

Anche per scoraggiare il pericoloso e accelerato gonfiarsi della propria economia in una bolla pronta a scoppiare, Pechino aveva da tempo annunciato che avrebbe messo in campo politiche economiche atte a frenare la propria pazza corsa. I risultati cominciano a farsi vedere, ma anche a preoccupare chi dalla crescita dei paesi emergenti dipende in buona parte.

Sono loro, infatti, il principale motore rimasto a trascinarsi dietro il resto del mondo: come scrive oggi sul Sole24Ore Giorgio Barba Navaretti, economista all'università degli Studi di Milano, «la crescita dei Paesi emergenti e in via di sviluppo» ha un peso sul Pil globale «ormai pari al 38%», e «Bric e soci assorbono intorno al 15% delle esportazioni europee, comprese quelle italiane».

In un organismo complesso ed interconnesso come lo è l'economia globale in cui ci troviamo a muoverci, però, le catene di causa-effetto prendono a loro volta strade tortuose. E il rallentamento dell'Occidente influisce a sua volta, e pesantemente, sugli altri Paesi. «Perché mai - continua Navaretti - la crisi dovrebbe essere strutturale? Che la frenata europea abbia tirato una legnata dolorosa ai Bric è incontrovertibile: ognuno di loro spedisce nel vecchio continente circa un quinto delle proprie esportazioni. Essendo quasi tutte economie dove l'export è il principale fattore di crescita, l'impatto è stato forte. Eppure (e nonostante i dati ufficiali cinesi facciano già intravedere segnali di ripresa degli investimenti) ci sono elementi che indicano che c'è altro, che la crescita a due cifre degli ultimi anni era in parte drogata e non la vedremo più tanto presto».

Il problema è che «Brasile, Russia e Sud Africa sono cresciuti soprattutto grazie alle esportazioni di materie prime. Il 65% delle vendite estere brasiliane sono beni primari», e se le economie degli importatori (cioè le nostre) non tirano, i nodi della crescita vengono al pettine.

Volendo mantenere un'impostazione d'analisi costruttiva, in questo scenario si può intravedere anche prospettive ottimistiche. Potrebbe nascondervisi la possibilità di rimediare a vecchi squilibri economici ed ecologici che il nostro modello di sviluppo si porta dietro da troppo tempo.

In fin dei conti, è proprio l'assunto di una crescita economica continua ed indefinita nel tempo che porta alla speranza di trovare di continuo "nuovi mondi" da colonizzare e sfruttare, fisicamente o commercialmente parlando che si voglia. I limiti del pianeta Terra, in questo senso, sono stati però già abbondantemente esplorati.

Per ritrovare la via di uno sviluppo sano occorre dunque puntare a risollevare la domanda interna al nostro principale bacino di riferimento - ossia l'Unione europea -, senza contare in toto o quasi sulla stampella offerta da altri. Una domanda interna da soddisfare non in maniera sconsiderata, ma selettiva e sostenibile, che sopravviva a se stessa, avendo il coraggio di scegliere insieme cosa può e deve crescere e cosa, semplicemente, non può farlo.

Guardare alle risorse interne più che alle esterne non significa racchiudersi in una sterile autarchia, che al tempo dell'economia globale sarebbe una pura chimera, ma sfruttare con intelligenza le risorse che abbiamo in casa, e che possono essere utilmente impiegate rilanciando anche una occupazione che langue: rivolgersi alla manifattura del riciclo per sfruttare le miniere urbane a nostra disposizione, ad esempio, non sarebbe un'idea peregrina per diminuire almeno in parte la dipendenza verso quelle brasiliane, o di qualsiasi altro Stato extra-Ue.

Rimettere in sesto, sotto la pressione della crisi, le nostre traballanti bilance commerciali avrebbe così anche il merito - grazie a lungimiranti politiche economiche ed industriali - di aiutarci ad imboccare la via di un nuovo e più sostenibile modello di sviluppo. Dove, è bene ricordarlo, i limiti della crescita saranno anche e sempre più limiti geografici.

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