
[25/10/2012] News
E' un fatto conclamato che la crisi abbia spostato l'asse terrestre economico dall'Occidente ai paesi asiatici. Non è l'unica rivoluzione in corso, ma è certamente la meno sostenibile ambientalmente. Se infatti sul piano sociale era persino auspicabile che in Paesi in via di sviluppo... si sviluppassero, col ché era ovvio che a soffrirne sarebbero stati quelli che fino ad oggi stavano meglio. Ma dal punto di vista degli impatti ecologici l'inseguimento dei bassi costi alla base dei successivi alti profitti ha avuto come vittima sacrificale proprio l'ambiente.
Tuttavia a rivoluzione economica insostenibile, sta corrispondendo una controrivoluzione che, se pur molto più lenta, sta spazzando via convinzioni che fino a qualche anno fa contestare era roba da vetero comunisti tristi, solitari y final. La sbornia post-industriale aveva spazzato via l'idea stessa che potessero esserci industrie non devastatrici dell'ambiente e che dunque ogni chiusura di un impianto equivaleva a un beneficio per tutti. Per non parlare dell'agricoltura, settore primario buono solo per essere studiato a scuola guardando con compassione vecchie foto di contadini ricurvi.
Ma come detto le cose stanno cambiando, e l'affermazione di oggi sul Sole24Ore del marchese Piero Antinori, presidente dell'omonimo e famosissimo gruppo vitivinicolo toscano, ne è una dimostrazione: «il rilancio dell'economia passa dall'agricoltura, come stanno dimostrando i dati dell'occupazione e noi abbiamo fatto un investimento di lungo periodo proprio in questa direzione». Dimostrazione che fa il paio con quanto sostiene sempre sul Sole24Ore Carlo Petrini, presentando il salone del gusto: «Il cibo può battere la crisi, serve un'alleanza virtuosa tra produttori e consumatori per una nuova economia sostenibile». Si potrebbe pensare che il "marchese" torna a fare il ricco possidente ora che la terra "brucia" e apre le sue braccia a quella che un tempo si chiamava bassa manovalanza. Ma almeno da noi quei tempi sono finiti e fare l'agricoltore oggi, anche se la terra come dicevano i nostri vecchi è "sempre molto in basso", è certamente sacrificio, è anche una scelta possibile e un'opportunità concreta di lavoro anche di alto livello.
Quando greenreport.it scriveva e scrive ancora oggi che la crisi in atto non è solo economica, ma anche ecologica e sociale (per non dire politica ed etica), pensa come unica via di uscita a un nuovo modello di sviluppo che abbracci tutti i settori, a partire da quello più vicino per antonomasia all'ecologia: ovvero l'agricoltura. Che poi è produzione di beni alimentari, ma anche produzione di rifiuti laddove appunto il sistema come è oggi iperlacunoso date la mole di cibo che sprechiamo. Dunque un nuovo modello di sviluppo non può non avere come "gamba" un'agricoltura sostenibile che non è solo quella biologica. Un discorso a parte merita poi l'allevamento, fattosi questo fin troppo industria a un livello ormai insostenibile che ha portato a uno stile di alimentazione basato sulla carne, deleterio in questa parte di mondo. Uno stile che in tutti i modi va cambiato in Occidente e non esportato altrove, pur sapendo che in parte questo sarà impossibile almeno nel breve periodo.
Agricoltura, quindi, e industria. Industria che è nuova manifattura in particolare, quella che può davvero riconvertire in chiave green le proprie produzione portando innovazione vera, posti di lavoro, made in con valore aggiunto tale da essere da esportazione, proprio là dove avevamo pensato di relegare per sempre le nostre produzioni durevoli, per metterci la camicia e la cravatta e poi terziarizzare gli operai e trasformare i laureati in addetti al call center. Un Paese dove il lavoro e l'istruzione erano variabili ininfluenti di un'economia senza competenze e fatta di ingordigia, clientelismo e "colpi di fortuna".
Non è decrescita e non è nemmeno felice, è diversa crescita, è scelta di cosa deve crescere. Non un ritorno alla campagna del ragazzo della via Gluck, men che meno della campagna da cartolina agrituristica, ma tecnologia e sapienza e saperi antichi per un settore sul quale investire per il futuro (saremo presto 9 miliardi nel mondo, non dimentichiamocelo...).
Così per l'industria, nessuna nostalgia per le alienazioni operaie ottocentesce, ma industria capace di produrre riutilizzando, riciclando, riducendo i flussi di materia e di energia. Un futuro dove non si spreca, come ci insegna la natura, un insegnamento perduto e ritrovato grazie o per colpa della crisi. Un ritorno al futuro guardando all'industria e all'agricoltura, quel futuro che oggi tanto spaventa, contro quella cultura che vorrebbe già data per perduta più di una generazione che invece vive e deve lottare per un mondo più sostenibile e più equo. Un futuro dove i proletari mai scomparsi della terra e delle nuove officine costruiscono un mondo più verde e sostenibile e rinsaldano i legami tra giustizia sociale e natura, tra l'uomo e il vivente, tra la vita e il lavoro.