
[21/12/2012] News
Le forti disuguaglianze e le discriminazioni tra i cittadini provocate dalla politica sono le vere cause delle cosiddette "primavere arabe", e non la crisi economica globale. Queste le conclusioni alle quali giunge il Rapporto sulle economie del Mediterraneo, curato dall'Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche (Issm-Cnr).
«Non vi è coincidenza fra le aree della sponda sud-orientale del Mediterraneo in cui le rivolte si sono verificate e gli effetti negativi della crisi economica globale - spiega Paolo Malanima, direttore dell'Issm-Cnr - Nei paesi dell'Africa settentrionale e del vicino Oriente, infatti, i tassi di crescita, pur ridottisi rispetto agli anni immediatamente precedenti il 2008, sono tuttavia rimasti positivi e superiori al 2 per cento nel 2009 e addirittura al 4 nel 2010. La crisi del debito pubblico riguarda, più i paesi nord-mediterranei, che quelli della riva sud-orientale, e anche l'inflazione, più volte citata come causa delle insurrezioni, in nessuno di questi paesi si è allontanata dalle medie calcolate nell'anno precedente alle rivolte, in Egitto era al 10 per cento, al 4 in Algeria e Tunisia e addirittura inferiore all'1 per cento in Marocco».
Nel rapporto si spiega che dopo la grave crisi economica dei primi anni ottanta, Tunisia, Algeria ed Egitto hanno avviato riforme economiche e accorciato le distanze dai paesi latini, anche se si è trattato di una crescita basata su turismo ed esportazioni energetiche, più che su nuovi settori produttivi. La "primavera araba" - si afferma nel rapporto - è piuttosto un fenomeno complesso e articolato, le cui cause vanno ricercate in un intreccio di fattori, tra cui il perdurare di sistemi politici che hanno favorito forti discriminazioni fra i cittadini.
«Molti paesi del Nord Africa hanno conosciuto nell'ultimo decennio notevoli progressi economici, di cui però ha beneficiato solo un'esigua minoranza - ha aggiunto il direttore dell'Issm-Cnr- la forbice poi è particolarmente evidente se ci si sposta dalle zone costiere a quelle interne. Oltre il 10 per cento della popolazione in Libia, Siria ed Egitto ha un reddito pro capite inferiore al 60 per cento del reddito medio, e la disoccupazione si attesta attorno ad un livello del 10 per cento». Gli autori del rapporto invece non hanno dubbi, invece, sulla relazione inversa, quella fra trasformazione politica e conseguenze economiche.
«Alle economie coinvolte, le rivoluzioni sono costate 75 miliardi di dollari, cioè fra il 15 e il 20 per cento del Pil dei quattro paesi più colpiti dalle rivolte. Inoltre nel breve periodo si prevede un arresto della crescita in Tunisia, un modesto progresso in Egitto e una caduta in Siria e Libia, dove le esportazioni di petrolio sono precipitate del 40 per cento alla fine del 2011. Le situazioni ancora incerte in questi paesi, tuttavia, rendono difficile l'azzardare pronostici, ma occorrerà modernizzare le istituzioni economiche e favorire competitività e dinamismo, indipendentemente dal colore politico o religioso del potere che vi si consoliderà», ha concluso Malanima. Anche se è l'economia locale guidata dai potentati collegati a governi non proprio "democratici" (e non la crisi economico-finanziaria globale) che ha portato i giovani in piazza, la ragione di fondo è il forte disagio sociale che ha alimentato la voglia di democrazia che si è sedimentata nel tempo.
Ci chiediamo quanto punti del Pil valga la libertà da regimi dittatoriali (se vogliamo, un ulteriore esempio che dimostra la necessità di introdurre indicatori di sostenibilità oltre che economici): sicuramente, almeno a nostro avviso, vale più di 75 miliardi di dollari, consegnati tra l'altro ad una fetta esigua della popolazione e derivanti dall'esportazione di combustibili fossili.