[16/01/2013] News
Il frutto avvelenato della guerra di Libia di Sarkozy e l’eredità neocoloniale di Françafrique
In Mali ormai è guerra vera per ricacciare indietro gli integralisti islamici che, dopo aver sconfitto i tuareg del Mnla che avevano proclamato l'Azawad indipendente, dopo aver proclamato un califfato islamico sul modello talebano, stavano marciando su Bamako, la capitale di uno Stato fantasma, il Mali, ormai ridotto ad un moncone e con un governo provvisorio ostaggio di militari golpisti e felloni. E' guerra vera perché, dopo i raid aerei iniziati l'11 gennaio e che hanno colpito le milizie islamiste e seminato (come sempre) morte tra gli innocenti, le donne e gli innumerevoli bambini dell'Africa, si stanno dispiegando sul terreno le truppe francesi, un segnale preciso in tutta la Françafrique, come gli africani definiscono il rapporto incestuoso tra Parigi e i dittatori e gli uomini forti delle sue ex colonie, che la Francia vuole fare sul serio.
I soldati francesi, affiancati dalle inaffidabili truppe del Mali si sono subito diretti verso Diabaly, una città conquistata dagli islamisti il 14 febbraio. Ma lo sforzo bellico francese è ancora più grosso: paracadutisti e mezzi blindati sono già pronti nei Paesi vicini per entrare in Mali e partecipare alla missione. Ad aspettare i francesi a Diabaly ci sarebbero anche i feroci tagliagole di Al Qaeda del Maghreb islamico AQmi) che scorrazzano liberamente, rapendo occidentali e trafficando droga ed armi in tutto il Sahel occidentale.
La guerra francese del Mali, o meglio l'opération Serval, come la definisce lo stato maggiore francese, è il frutto avvelenato dell'avventura libica di Francois Sarkozy che per eliminare il suo ex amico (e forse finanziatore) Muammar Gheddafi ha innescato una reazione a catena arrivata alla conquista del nord del Mali da parte delle milizie tuareg che erano al soldo del dittatore libico. L'Azawad tuareg indipendente è durato poco ed è stato sostituito dall'instaurazione di una specie di Afghanistan nel cuore più povero e vulnerabile dell'Africa, un cuore affamato e sottosviluppato che batte su enormi risorse di petrolio, gas, uranio e minerali sulle quali la Francia vanta da sempre privilegi neocoloniali.
Ieri il ministro degli Esteri del Mali, Tiéman Hubert Coulibaly, ha detto che ai francesi ci vorrà qualche settimana per risolvere la faccenda e conquistare l'Azawad. Ma il rischio è che la situazione diventi di tipo afghano o siriano, con le bande armate islamiste che, dietro la prima linea di difesa, si stanno già ritirando da Gao e Timbouctou, dove hanno distrutto le tombe dei santi islamici protette dall'Unesco, per organizzare la guerriglia anti-occidentale nel deserto. Sembra il sogno avverato dell'Amqi e c'è da giurare che i "martiri" si sprecheranno e che il fanatismo omicida infetterà una regione dove l'islam aveva soprattutto il volto della condivisione e della fraternità. Come dice anche Coulibaly, i francesi non se ne andranno presto: «Ci saranno delle operazioni di stabilizzazione ed in più non dimentichiamo le violazioni dei diritti umanitari, il ritorno dell'amministrazione in questa regione del Mali che necessiteranno di una presenza militare al fine di distruggere le sacche di resistenza che questa gente, i jihadisti, lasceranno».
Ma allora perché il presidente socialista François Hollande, che aveva promesso di farla finita con il neocolonialismo di Françafrique, si è infilato nelle sabbie mobili del Sahel? Semplicemente perché non poteva far altro. La situazione in Mali è molto diversa dalla rivolta dei miliziani nella Repubblica Centrafricana, dove Parigi si è tenuta in disparte; se a Bangui si tratta dell'ennesimo regolamento di conti tra bande per risorse comunque controllate dalle multinazionali, a Bamako la Francia e la comunità internazionale, a partire dalla Communauté économique des Etats d'Afrique de l'Ouest (Cedeao) si sono trovati di fronte alla masochistica dissoluzione di uno fragilissimo Stato per mano golpista ed all'avanzata di un califfato islamico che terrorizzava ed umiliava gli stessi uomini e donne che aveva "liberato". Si sono trovati di fronte al pericolo concreto che le bande di Al Qaeda, questa volta vere e non immaginarie, si impossessassero di un Paese africano trasformandolo in una nuova Somalia.
Alla fine, dopo un anno di tira e molla, la Cedao dispiegherà accanto alle truppe francesi circa 3.000 uomini: Senegal, Niger, Togo e Burkina Faso stanno inviando in Mali 500 uomini ciascuno, il Benin 300 militari. Il contingente più grosso sarà quello della Nigeria, 600 soldati per impedire che il focolaio del Mali si saldi al terrorismo interno di Boko Haram che stermina i cristiani fin dentro le chiese.
Insomma, pur nel ritardo della Francia che sperava che la tentennante Cedao intervenisse da sola, si tratta di una specie di attacco "preventivo" che vorrebbe, come sempre, essere un'operazione chirurgica ma seminerà altro sangue, dolore, morte, odio e vendetta e non rimarginerà col fuoco della guerra la ferita infetta sulla quale si sono precipitati i fanatici ben armati ed addestrati del fascismo islamico senza misericordia, che è il vero collante ideologico che tiene insieme le diverse anime dell'integralismo dall'Africa al Pakistan.
La Guerra francese del Mali, frutto della guerra franco/occidentale petrolifera della Libia, potrebbe però fare la fine di tutte le altre intentate in proprio o per procura dall'occidente in Africa e nell'Asia islamica. Se il risultato della guerra in Libia è stata quella di rafforzare l'islamismo interno e di esportarlo nel Sahel che era già un fertile terreno per l'Amqi, lo stesso si può dire per le guerre in Iraq e per la guerra civile in corso in Siria, dove i tentativi di eliminare scomode dittature "laiche" si sono trasformati in occasioni d'oro per l'integralismo islamico, per le milizie armate e finanziate da monarchie assolute sciite come l'Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e gli Emirati arabi uniti che stringono con la destra la mano dei leader occidentali e con la sinistra finanziano ed armano i peggiori fanatici, a cominciare dal non compianto Osama bin Laden.
Forse l'ennesima guerra africana francese potrebbe essere l'occasione per fermarsi a pensare sul paradosso politico ed etico di questa coazione a procedere occidentale, di queste guerre fatte per liberarsi di falsi islamisti e di false armi di distruzione di massa che fanno uscire dalle loro tane gli islamisti veri armati fino ai denti che aprono la strada alla presa del potere da parte di partiti islamici.
Forse in Iraq, in Siria e in Libia sarebbe stato meglio appoggiare prima le forze democratiche e progressiste che lottavano contro le dittature, forse in Mali sarebbe stato meglio aprire un dialogo con l'autonomismo tuareg, invece di consegnarlo ad Al Qaeda ed ai suoi alleati che si stanno infiltrando anche in un altro storico movimento di liberazione laico e progressista, il Polisario, che aspetta da decine di anni nei campi profughi algerini che la comunità internazionale e l'Onu obblighino il Marocco a indire il referendum, promesso e sempre rimandato, sull'indipendenza della Repubblica Sahauri.
Se il ministro degli Esteri del Mali invita la comunità internazionale a mobilitarsi nella lotta contro «Dei guerrieri formati, addestrati, dei veri combattenti che hanno servito in tutti i teatri dove il terrorismo internazionale è stato combattuto», forse la comunità internazionale farebbe bene a chiedersi da dove vengano i soldi e le armi per questi assassini in nome del Corano, e in quali governi e corti regali si nascondano i loro munifici complici e mandanti politici.