[25/01/2013] News

Il "dilemma del prigioniero" blocca anche lo sviluppo sostenibile

Nello scacchiere dell'economia mondiale, il pedone che si muove da solo è un pedone morto. Ne è convinto Gordon Brown, laburista ed ex primo ministro britannico. Lanciando quello che potrebbe sembrare un monito anche alla sua Gran Bretagna (col suo successore Cameron che coccola l'idea di un referendum sull'uscita del Paese dall'Unione europea), Brown sentenzia dalle sale del World economic forum in corso a Davos che «il problema della bassa crescita richiede più di un cambiamento delle politiche monetarie nazionali: richiede anche un accordo per coordinare la crescita globale - una soluzione che non è arrivata».

Tramutarsi da pedone a vittima è un'opzione che molti paesi - compreso certamente il nostro - non possono affatto escludere. Anzi. A bene vedere, il numero degli agnelli sacrificali è potenzialmente vastissimo: come ebbe modo di evidenziare a suo tempo Romano Prodi, «Con l'ingigantimento dei mercati finanziari (che muovono cifre cento volte superiori alla dimensione dei beni reali), avvenuto in pochissimi anni, la speculazione ha assunto una forza tale che nessuno Stato nazionale può resistergli tranne Usa e Cina, cani così grandi che nessuno osa ancora morsicare».

Non solo l'eterea finanza internazionale, ma anche i cambiamenti climatici, l'assottigliamento delle risorse materiali ed energetiche disponibili, l'aumento delle pressioni demografiche: tutti elementi dall'impatto globale, che necessitano dunque di risposte d'intervento globali alle quali ancora non sappiamo conferire una forma.

«Nessuno può farcela da solo - continua Brown - Ma, in assenza di un coordinamento globale, il mondo è bloccato in un solco, recitando la propria versione globale del "dilemma del prigioniero": un universo in cui nessuna economia può avere successo da sola, ma nessuno si fida abbastanza degli altri per tentare la cooperazione e il coordinamento».

Eppure, riuscire in una simile impresa avrebbe ripercussioni assai tangibili (e positive) sull'andamento del benessere mondiale. «Tre anni fa - sottolinea ancora Brown - il Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, coordinando l'espansione della domanda asiatica e gli investimenti nelle infrastrutture occidentali, potremmo mobilitare fondi privati ​​per grandi pubblici e privati, ​​progetti di partenariato. Il risultato sarebbe una crescita globale più alta del 3%, gli occupati dovrebbero crescere di 25-30 milioni e 100 milioni di persone potrebbero sfuggire alla povertà».

Ma, come detto, non si tratta "soltanto" di questioni economiche. «C'è un'altra verità» scrive l'economista Jeffrey Sachs dalle colonne di Project Syndicate. Quella dei disastri ambientali che si moltiplicano sulla superficie del pianeta, indifferenti all'andamento più o meno virtuoso dei vari Pil nazionali ma direttamente correlate a quello che Sachs - e non solo lui - chiama semplicemente «business as usual».

«Il semplice fatto è che l'umanità deve affrontare una scelta difficile - osserva Sachs - Se le tendenze attuali di crescita dell'economia mondiale continuano, siamo di fronte a un disastro ecologico». L'affacciarsi delle economie emergenti alla ribalta del modello economico che noi occidentali abbiamo perseguito per decenni non fa che accelerare l'avvicinarsi di questa prospettiva.

La coordinazione deve accompagnare la competizione globale, se vogliamo riuscire a cancellare questo futuro dalle opzioni possibili (e sempre più probabili). «Che cosa ci vuole per scrivere il lieto fine? In primo luogo - chiosa Sachs - dobbiamo riconoscere che noi, come società globale, abbiamo una scelta da fare». Ecco dove il pedone può riscoprire la propria, utile vocazione all'interno dello scacchiere. Accettando di far parte di una strategia comune, ma agendo conscio della propria, singola responsabilità per il cambiamento.

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