[18/03/2013] News
Il pendolo torna indietro. E con lui anche alcune produzioni delocalizzate anni fa e oggi più convenienti, ma non solo, dentro le mura amiche del Belpaese. Negli Usa già succede, ma la novità di oggi - certificata dal Sole24Ore - è che questo stia accadendo anche alle nostre latitudini. Primi timidi segnali, sia chiaro, tuttavia è un trend che prende forma e con motivazioni assolutamente non sorprendenti, ma sostenibili da un punto di vista sanitario (vedi ultimo scandalo alimentare della carne di cavallo), sociale e pure ambientale.
Dovrebbe essere chiaro a tutti, infatti, che accorciare la filiera ha almeno due vantaggi indiscutibili: i prodotti sono più controllabili e le merci viaggiano di meno. Si sarebbe evitato che nei surgelati finisse carne diversa da quella indicata nelle etichette?
Probabilmente no, ma la cosa sarebbe potuta emergere prima e il fenomeno sarebbe stato assai più circoscritto.
Non solo, avere una filiera italiana significa anche poter intervenire per migliorarne la qualità in maniera più diretta. Ad esempio delocalizzando si è pagata meno la manovalanza, con risultati però spesso scadenti in termini di prodotto finito. Questo forse pagava lo stesso prima della crisi, non oggi che quel poco che si compra viene selezionato, e spesso proprio sulla base del made in Italy. Magari, sempre per colpa della crisi, si finisce poi a comprare una cosa "cinese", ma avere la possibilità di fare lo stesso acquisto di un prodotto locale - oggi - è una strategia vincente.
Certo, sa molto di autarchia, ma i tempi sono cambiati e se persino Apple è in parte tornata negli Usa a produrre significa che il governo a stelle e strisce ha attivato una politica favorevole a queste operazioni, ma anche che a livello di marketing la cosa funziona. Pur non essendo tra le prerogative di questo che in termini tecnici si chiama backshoring, l'ambiente può riceverne beneficio, ma stiamo sempre attenti alle patacche. Un prodotto alimentare a filiera corta, ad esempio, viene recepito immediatamente come più sano, quando invece la distanza non può essere l'unica discriminante. Se, infatti, il prodotto viene da pochi chilometri ma è coltivato in un campo inquinato o in un allevamento che usa sostanze proibite, non c'è grande differenza. Anzi, magari i prodotti che arrivano dalla Germania sono migliori. Questo solo per non farsi abbagliare dalle cose, perché è ovvio che per il resto le produzioni più sono vicine meglio potenzialmente è.
Ma c'è un altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione. Una produzione industriale che torna ha bisogno comunque di materie prime che molto spesso non trova in loco. Lo stimolo per un backshoring sostenibile quindi dovrebbe essere quello di accompagnare il "rientro"
da una politica di ricerca attraverso investimenti finalizzati a una produzione a basso impatto. Questo significa riduzione dei consumi di energia e di materia e riutilizzo laddove possibile, e avvio al riciclo e successivo uso del materiale successivamente riprodotto. Una filiera interamente virtuosa, che crei anche lavoro d qualità.
Diversamente si tratta solo di un rientro per motivazioni varie, non ultimo il fatto che all'estero ormai sono pochi i posti dove i costi del lavoro sono nettamente più bassi di quelli italiani, o almeno tali da giustificare una presenza in un determinato Paese anche quando non c'è sbocco sul mercato nel Paese dove insiste la produzione.
Teniamo poi in conto ancora un altro aspetto. Se tutte le politiche anche europee stanno spingendo verso una sorta di "protezionismo"
almeno delle produzioni di qualità, con il valore aggiunto che in seno all'Ue l'uso efficiente delle risorse attraverso anche l'uso di energia e di materia rinnovabile (quella riciclata) sono chiarissime, i governi a partire da quello che verrà in Italia non paiono particolarmente attenti al fenomeno (tranne qualche spruzzo in qua e in là) e, ad esempio, la declinazione del governo Monti è stata quella di aumentare la produzione di energia da fonti fossili. O almeno questa è la strategia energetica nazionale che lascerà in eredità e che, va detto senza giri di parole, non è lontana dalla filiera corta, anzi.
Considerato che in Italia già si produce (anche se poco) petrolio nell'adriatico, la Sen dice di aumentarne l'estrazione ricercando anche altri pozzi nel Mediterraneo. Petrolio che viene da vicino, quindi, non dall'altra parte del mondo e non da territorio sotto embargo o in guerra. Peccato che probabilmente una corsa al petrolio in Italia non solo rovinerebbe quel che resta (non molto) di buono nei nostri mari, ma oltretutto - visto il poco petrolio di cui stiamo parlando - non sarebbe una soluzione ad alcunché.
Come si vede la sostenibilità non è una conseguenza naturale di nulla, ma un processo complicato che non può sottostare a semplificazioni.
Semplificazioni come quelle secondo le quali sia possibile chiudere l'era delle fonti fossili senza passare per una transizione più o meno lunga legata al gas e all'uso sempre maggiore e diffuo di tutte le energie rinnovabili. Quindi bene vangano, anzi ben ritornino le produzioni in Italia e ben maturi sempre di più la consapevolezza della filiera da accorciare e del loro controllo, ma governiamo secondo il criterio direttore della sostenibilità questo processo, altrimenti sprecheremo anche questa chance.