
[15/05/2013] News
Oggi l’economia reale del pianeta, green economy in testa, si fonda per oltre il 50% sulla conoscenza
È un buon segnale, quello che viene Fondazione Cini di Venezia, dove la Federazione dei Cavalieri del Lavoro ha organizzato la convention annuale attorno al tema "Una scuola più europea per la competitività ed una cittadinanza attiva". Ed è una buona indicazione quella implicita contenuta nel rilievo di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: in altri Paesi, europei e non, si tagliano spese inutili o improduttive, mentre si investe in formazione e ricerca.
L'esempio più vicino, ma non certo il solo, è quello della Germania: nei mesi scorsi il governo di Angela Merkel ha tagliato la spesa pubblica tedesca di 80 miliardi di euro. Ma ha aumentato gli investimenti in educazione e ricerca di 13 miliardi.
È evidente che la Germania "crede" nella conoscenza. E crede che la conoscenza non abbia solo un (inestimabile) valore in sé, che aiuta a formare persone più consapevoli e capaci di proporsi come protagonisti della cittadinanza attiva. Crede anche che la conoscenza abbia un valore pratico: è diventata ormai "la" leva dell'economia in una stagione della storia che non a caso viene chiamata "era della conoscenza".
Non è un caso che - non solo in termini assoluti, ma anche relativi - la Germania sia il paese europeo che investe di più in scuola e ricerca. E, nel medesimo tempo, vanti l'economia che più di ogni altra è capace di competere sui mercati internazionali, conservando un welfare altissimo, una migliore distribuzione della ricchezza e proponendosi come paese leader della green economy.
La Germania non è certo la sola, in Europa. Esiste un'intera costellazione di stati che aderiscono, per così dire, al suo modello. Questa costellazione va dalle Alpi (Svizzera, Austria) alla Scandinavia. E si caratterizza appunto per alti investimenti in educazione e ricerca che consentono di alimentare un'economia fondata sulla produzione di beni e di servizi ad altro contenuto di conoscenza aggiunto, che a sua volta consente di mantenere un alto livello di welfare.
Non è, al contrario, un caso che i paesi che affacciano sul Mediterraneo e che sono in condizioni economiche e finanziarie decisamente meno brillanti - Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Cipro - siano anche i paesi che "credono" meno nella scuola e nella ricerca.
C'è una correlazione diretta tra investimenti in cultura ed economia. Così come c'è una correlazione diretta tra investimenti in cultura e cittadinanza attiva.
Esistono diversi esempi, anche fuori dall'Europa. La Corea del Sud è il paese che, negli ultimi trent'anni, ha avuto la crescita maggiore del Prodotto interno lordo (Pil) al mondo, dopo la Cina. Nel 1980 un coreano aveva, in media, un reddito pari a un quarto di quello di un italiano. Oggi il reddito pro-capite dei coreani ha superato quello degli italiani. In questi trent'anni la Corea ha investito in ricerca e in educazione.
Per quanto riguarda la ricerca, la Corea ha una spesa assoluta di 55 miliardi di dollari (più del doppio rispetto a quella italiana, che è di 24 miliardi) e una spesa relativa del 3,5% rispetto al Pil (il triplo di quella italiana). Per spesa assoluta in ricerca la Corea è quinta al mondo (dopo Usa, Cina, Giappone e Germania): precede ormai largamente Francia e Gran Bretagna. Anche per spesa relativa la Corea entro nei top five (con Israele, Svezia, Finlandia e Giappone).
Per quanto riguarda l'educazione la Corea ha fatto persino meglio. Non solo i suoi studenti sono sistematicamente in cima alla classifiche di merito internazionali (valutazioni PISA): insomma, risultano tra i più bravi al mondo. Ma i suoi giovani sono i più qualificati in assoluto: il 63% dei coreani di età compresa tra i 25 e i 34 anni ha una laurea. Contro il 40% della media dei paesi OCSE e il 19% della media italiana.
Grazie a questi investimenti in ricerca ed educazione la Corea del Sud ha conquistato una posizione primaria nell'economia della conoscenza, non solo con la produzione di beni e servizi hi-tech, ma anche nell'ambito dell'industria creativa (video, per esempio).
La Corea ha "creduto" nella ricerca e nella scuola è ha raggiunto un alto livello di competitività. Anche e soprattutto nella green economy. Ma non basta. Con la sua "politica della ricerca e dell'istruzione" ha migliorato anche la qualità della cittadinanza. Nel 1980 la Corea aveva un indice di Gini, un indicatore della disuguaglianza sociale, maggiore dell'Italia. Ebbene, in questi trent'anni di impetuosa crescita, la Corea ha diminuito l'indice di Gini (la società è diventata più coesa), mentre l'Italia l'ha visto aumentare. Tanto che oggi il nostro paese ha un tasso di disuguaglianza superiore a quello coreano.
In sintesi, la Corea ha dimostrato che investire in conoscenza ha quattro grandi ritorni: culturale, economico, sociale ed ecologico. E oggi è protagonista in un mondo la cui economia reale si fonda, per oltre il 50%, sulla conoscenza.
È davvero singolare che questa semplice verità - da trent'anni e più - sia riconosciuta da tutti tranne che nel paese, l'Italia, che sostiene di essere il più grande bacino culturale del mondo. Stiamo dilapidando un grande patrimonio. E tutto questo ha un prezzo. Diventiamo sempre più poveri perché crediamo sempre meno nella cultura. E crediamo sempre meno nella cultura facendoci scudo della crisi finanziaria. Non abbiamo capito che è proprio nei periodi di crisi che occorre "credere" di più nella conoscenza.
«Se pensate che la cultura sia costosa - sosteneva Derek Bok, rettore della Harvard University - provate con l'ignoranza». Ecco da alcuni decenni noi stiamo provando con l'ignoranza. E oggi ci stiamo accorgendo di quanto sia costosa.