[24/03/2011] News

L'Italia può crescere se sposa industrialmente la sostenibilità

LIVORNO. Tutti gli indicatori economici e pure quelli ecologici ci dicono che in Occidente le crisi sono ancora in corso. Nell'Ue qualche nazione va meglio (tipo Svezia e Germania), qualcuna va peggio (tipo Grecia e Portogallo), l'Italia stenta, ma come scrive Fabrizio Galimberti oggi sul Sole24Ore non è una novità. Sono 40 anni che l'Italia non cresce al di là delle crisi e sono lontani anche i tempi in cui in questo Paese c'era una vera politica industriale in grado di dare un orizzonte economico alle imprese. Ora il punto è come impostare questa politica che è fondamentale ma che non può essere, lo hanno capito tutti e l'Ue è in prima fila almeno a parole, legata a doppia mandata alla sostenibilità.

Dunque non è solo come si cresce, ma che cosa vogliamo che cresca. Se per tornare a crescere l'idea è quella che vuole portare avanti l'attuale maggioranza di governo ovvero edilizia, infrastrutture e nucleare, è chiaro che si vuole voltare le spalle alla sostenibilità. Nonostante premi Nobel e insospettabili economisti affermino che sia la cosa più sbagliata perché, usando una ormai stanca metafora, si rischia di segarci il ramo sul quale siamo tutti seduti.

Galimberti pone bene la questione generale, ma quando afferma "la crescita è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per risolvere i problemi: con la crescita possiamo affrontarli, senza crescita tutto si aggrava" manca un pezzo. E quindi anche la sua risposta a questa domanda, ovvero "perché l'Italia non cresce?" è monca.

Ma vediamo ancora più nel dettaglio. Galimberti sostiene giustamente che «Un primo indizio sta nell'osservare che un buon terreno non basta. L'humus può essere fertile e ricco ma rimane vero che migliore è il terreno, più gramigna produce a non coltivarlo. E il "coltivarlo" non è solo compito degli imprenditori. Il sistema produttivo italiano ha due facce: una sottoposta a una feroce concorrenza internazionale, e un'altra che, preoccupata della battuta di George Orwell - «il problema con la concorrenza è che qualcuno vince» - cerca di proteggersi da questo "problema" con connivenze interne ed esterne. Ma il "coltivarlo", in quella mezzadria fra pubblico e privato che è l'economia di mercato, rimane compito precipuo dell'operatore pubblico».

Già questa osservazione la dice lunga su quanto sia cambiata (ed è un bene) l'idea che il mercato possa fare tutto per conto suo, quando è evidente che se non c'è una politica industriale - quelle che Galiberti chiama "atmosfera culturale che deve respirare invece un'impresa italiana" - Il mercato seguirà solo logiche di convenienza che portano lontano dall'Italia e lontanissimo dall'ecologia.

Il problema principale dell'economia italiana e della sua scarsa crescita, dice sempre il giornalista del Sole, «sta insomma nei sospetti e nelle incapacità a collaborare che avvelenano i rapporti fra pubblico e privato». Ed è vero anche questo, poiché «la politica in Italia è più una politique politicienne che si guarda l'ombelico che una politica alta preoccupata di creare le condizioni di base per il fiorire dell'intrapresa».

Dunque che fare? «Il ruolo dello Stato va molto al di là di una "politica industriale" (termine sospetto che spesso si risolve in una soluzione alla ricerca di un problema). Il ruolo principale dell'operatore pubblico è quello di creare due tipi di infrastrutture: una dotazione infrastrutturale fisica che è specialmente importante in Italia, dove la conformazione orografica e le peculiarità idrogeologiche richiedono forti spese in opere pubbliche; e una "infrastruttura regolatoria" che si scrolli di dosso le tante incrostazioni borboniche che appesantiscono di adempimenti burocratici e fiscali la vita delle imprese. In Italia la "riforma della pubblica amministrazione" è stata spesso avviata con grandi annunci, una riforma "orizzontale" che avrebbe bisogno, per produrre effetti, di una continuità amministrativa e di un pungolo politico che vengono negati dall'instabilità dei governi».

Tutto giusto, ma senza il criterio direttore della sostenibilità e una politica in grado di decidere, fare e portare avanti le opere sostenendo il giusto dissenso anima della democrazia, tutto questo è solo "fuffa". Se dai vita a una politica industriale volta allo sviluppo delle energie rinnovabili devi essere in grado di fare leggi che tutelino le aziende serie e colpiscano gli speculari, invece in Italia prima si apre a tutti e poi si chiudono i rubinetti.

Come introdotto dalla Commissione Ue, ormai le materie prime scarse e sempre più care sono un problema serio per le aziende (comprese quelle italiane) e il riciclo uno dei cardini per impostare il problema strategicamente. Una politica industriale seria dovrebbe quindi pensare a non tagliare gli incentivi alle rinnovabili e ad applicarli, invece, ai prodotti realizzati con materiali riciclati. Incentivare dunque anche l'industria del riciclaggio che tra l'altro abbisogna come il pane sia di impianti, sia di ricerca e innovazione. E invece di questo non c'è traccia, neppure a livello di discussione, neppure a livello di strategie politiche dei partiti ambientalisti o sedicenti tali.

Concludendo quando Galimberti chiosa sostenendo : «L'Italia tornerà a crescere? La missione non è impossibile, ma per deliberare bisogna conoscere», ebbene bisogna conoscere l'economia, ma riconoscerne anche i limiti che le dà la finitezza delle risorse ambientali. Inoltre se l'Italia vuole davvero crescere deve e può farlo proprio in questo ampio spazio che la sostenibilità offre a chi sa vederlo.

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