La scienza contro Barabba
[3 Febbraio 2015]
La scienza e gli scienziati, tranne pochi altisonanti nomi, non hanno mai avuto grande fortuna nell’affermarsi presso il grande pubblico. Capire cosa succede all’interno di lontani laboratori, attorno a noiosi tavoli, è una sfida che affascina solo una piccola fetta della popolazione; tutti però sanno che oggi quella della scienza è la voce dell’autorità, e come tale viene imposta. Una via di fuga però c’è: quando non piace, è facile crearsene una propria. Specialmente con la sovrabbondanza di informazioni circolanti nel XXI secolo, qualcuno disposto a fomentare e appoggiare le proprie teorie, anche le più stralunate, lo si trova sempre. Con risultati spesso catastrofici.
A ricordane le sfumature ci pensa oggi la Repubblica, che propone sulle sue pagine l’ultimo sondaggio della American Association for the Advancement of Science (Aaas, quella che pubblica la rivista Science, per intendersi). Si prenda il cambiamento climatico: «Un non-scienziato su tre pensa che gli scienziati stiano ancora litigando sui cambiamenti climatici, e in questo autoinganno trova l’assoluzione alle proprie responsabilità di uomo occidentale». Ma cosa ne pensano davvero gli scienziati interpellati? Se si parla di cambiamenti climatici «le Casalinghe di Voghera appaiono propense al 50 per cento a discolpare la mano dell’uomo, mentre gli scienziati la accusano all’87» per cento (secondo altre pubblicazioni, note da anni e che interpellano esclusivamente gli scienziati esperti in materia, risulta un ancor più schiacciante 97%). Nel sondaggio Aaas ci sono numeri che vanno anche contro il comune sentire ambientalista, ad esempio quelli che riguardano gli Ogm o il nucleare. In questo caso però l’unanimità scientifica è lontana, e il principio di principio di precauzione rimane una scelta oculata.
Numeri e percentuali, come anche le ragionevoli opinioni, si sono comunque sempre dimostrati degli scudi di carta di fronte ai mutevoli umori della popolazione. È un fattore ineliminabile, e neanche di poco conto, in democrazia. Avremmo dovuto accorgerci di questo difettuccio già nelle sue primitive forme di espressione: tra Gesù e Barabba, il popolo di Gerusalemme chi salvò dalla croce, interpellato in merito? Se lo chiese molti anni fa il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nel suo agile libretto «Crucifige!», e la risposta inquieta ancora.
Non vorremmo scomodare ingombranti paragoni, ma è indubbio che la scienza le vesti di Barabba le indossi davvero raramente, agli occhi del cittadino medio. Il problema, oggi come millenni fa, sta in buona parte nei cattivi consiglieri. C’è chi se ne lava le mani, Pilato docet, e chi fa l’avvocato del diavolo – come il Sinedrio.
Ma la teologia non è il nostro forte, meglio gli esempi pratici. Il Corriere della Sera, ad esempio: oggi il quotidiano più autorevole d’Italia torna a scrivere di cambiamenti climatici. Per chiedere una scossa verso un accordo climatico ambizioso da raggiungersi, ormai prossimamente, a Parigi? Non esattamente. Titolando Meno catastrofismo contro l’effetto serra, il buon Danilo Taino rispolvera il suo cavallo di battaglia: Bjorn Lomborg, “l’ambientalista scettico”, per snocciolare qualche dato e affermare placidamente come «tutto sommato, insomma, il catastrofismo sembra piuttosto forzato». Si sorvola sul parere di quel 97% degli scienziati di cui sopra, concedendo spazio e rilevanza a un solo individuo. Oggi allo stesso, identico modo di due anni fa, come denunciò Francesco Ferrante proprio sulle nostre pagine. Nel nostro piccolo, il primo slogan con cui greenreport.it si affacciò nel mondo dell’informazione italiana, è «l’ambiente non è solo emozione». Una filosofia che cerchiamo di mantenere sempre presente: il catastrofismo fine a sé stesso è inutile, ma far finta di niente è colpevole; e anche pensare che la casalinga di Voghera possa esprimersi con ragione sul global warming è dura (senza spiegargli bene che cosa sia).
Senza un’informazione adeguata alle spalle, almeno a livello mainstream, non ci stupiamo allora se un’azione incisiva contro i cambiamenti climatici tarda ad arrivare. O se la scienza, provando a competere sul piano dell’informazione-spettacolo, ne esce a pezzi.
La scienza deve certo migliorare sul piano della comunicazione, ma ricercando l’applauso o l’approvazione popolare a ogni costo, il fallimento è dietro l’angolo. Quella che pesa tremendamente è l’inadeguatezza di interpreti, siano essi politica (chi si è perso l’ultimo inno di Beppe Grillo al metodo Di Bella?) o giornali, nel contribuire a decifrare la realtà irriducibilmente complessa che ci circonda. Ma i giornali devono vendere, si dirà, e i politici farsi eleggere. Non è forse un circolo vizioso da cui è impossibile sfuggire, in democrazia? La risposta finale non può essere che quella di continuare a provarci. Dopotutto, la democrazia rimane sempre «la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino a ora».