La farina più antica del mondo è toscana: risale a 30.000 anni fa
Scoperta rivoluzionaria: in Toscana si lavorava la farina di tifa prima del Neolitico
[24 Aprile 2015]
Un gruppo di ricerca archeologica guidato da Biancamaria Aranguren della Soprintendenza archeologica della Toscana, in collaborazione con Anna Revedin, dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, ha scoperto in Toscana la farina più antica del mondo, un fatto che potrebbe rivoluzionare le attuali conoscenze sull’alimentazione e la conoscenza agricolo/tecnologica degli uomini del Paleolitico. La scoperta è stata presentata a Firenze durante l’evento “La prima farina in Toscana – Alle origini dell’alimentazione”, per approfondire il tema dell’evoluzione dell’alimentazione e che fa parte delle iniziative di Expo 2015.
30.000 anni fa nella zona di Bilancino, oggi occupata da un lago artificiale, sulle rive della Sieve, c’era un insediamento temporaneo di una tribù di homo sapiens che utilizzava pietre a forma di macina. Infatti, in questo luogo, frequentato una sola volta e sepolto dal limo della Sieve, vennero trovate delle pietre che, le i archeologhe riconobbero come un’antica macina e un pestello. Il colpo di genio è stato quello di non lavare questi antichissimi strumenti e di analizzare le pietre e i resti del focolare preistorico al microscopio elettronico e al carbonio 14, è così che è venuto fuori che sulle pietre ci sono tracce di amido risalenti a 30.000 anni fa.
Aranguren e Revedin sottolineano che si tratta di «Una scoperta che rivoluziona le conoscenze sull’alimentazione umana perché finora era opinione corrente che le popolazioni nomadi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore fossero essenzialmente carnivore. Il rinvenimento a Bilancino di un macina e di un macinello-pestello datati al C14 a 30 mila anni fa e la presenza su di questi di granuli di amido, rappresentano la più antica testimonianza diretta non solo dell’uso alimentare delle piante ma soprattutto di una vera e propria “ricetta” per la preparazione di un cibo di origine vegetale»
Grazie alle analisi condotte fra il 2005 e il 2007 dal Dipartimento di biologia vegetale dell’università di Firenze, si è scoperto che gli amidi sugli utensili appartengono a varie piante ma soprattutto alla Typha (Tifa), detta anche stiancia o mazza sorda e le ricercatrici spiegano che «Dalla Tifa, una pianta palustre, si ricavavano gallette o farinate ad alto valore nutritive. La Tifa è una pianta palustre molto comune, dalle sue foglie si ricavavano fino a pochi anni fa fibre per l’intreccio di corde, stuoie e “sporte” ecc., mentre i rizomi erano utilizzati a scopo alimentare in molti paesi extra-europei».
Il gruppo archeologico ha anche raccolto i rizomi di tifa, li ha seccati, macinati e, su di un focolare ricostruito come quello scoperto negli scavi di Bilancino, con questa farina, ha cucinato della “gallette” che sono risultate di gusto gradevole.
Aranguren e Revedin ribadiscono che «Le implicazioni di questa scoperta sono sotto molti aspetti rivoluzionarie: per la prima volta l’uomo aveva a disposizione un prodotto elaborato facilmente conservabile e trasportabile, ad alto contenuto energetico perché ricco di carboidrati complessi, che permetteva maggiore autonomia soprattutto in momenti critici dal punto di vista climatico e ambientale. La scoperta dimostra inoltre che l’abilità tecnica necessaria per la produzione di farina e quindi per preparare un cibo, gallette o una farinata, era già acquisita in Toscana molto prima della nascita dell’agricoltura nel Neolitico, legata ai cereali, che si sviluppò in Medioriente. Le ricerche interdisciplinari, che hanno coinvolto numerosi specialisti come geologi, sedimentologi, petrografi, botanici, specialisti in tecnologia litica, informatici, hanno permesso di delineare la storia di Bilancino: si tratta di un accampamento stagionale di 30.000 anni fa che veniva frequentato nel periodo estivo per la raccolta e la lavorazione delle erbe palustri. E’ stato anche possibile ricostruire l’organizzazione interna dell’insediamento, identificando focolari, capanne, spazi adibiti alle attività quotidiane (preparazione del cibo, lavorazione delle pelli) e ad attività specifiche (lavorazione delle piante palustri, produzione di strumenti in pietra) e infine spazi dedicati all’accumulo di rifiuti».
Dalla scoperta di Bilancino, con il contributo dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, è nato il progetto di ricerca “Le risorse vegetali nel Paleolitico” dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, coordinato dalla Revedin e che ha come principale obiettivo quello di verificare se le tecniche di macinazione di vegetali documentate a Bilancino fossero un patrimonio comune dell’umanità di 30000 anni fa. «Di solito queste pietre, poco appariscenti – spiega Revedin- vengono raccolte ed esaminate rapidamente alla ricerca di tracce di incisioni, spesso anche lavate con il risultato di una perdita quasi completa della possibilità di trovare microresidui. La ricerca ha dato ottimi risultati: sono stati trovati e analizzati altri strumenti per la macinazione, provenienti dai più importanti siti europei della stessa epoca di Bilancino: Pavlov e Dolni Vestonice nella Repubblica Ceca, Kostenki nella pianura del Don in Russia, area famosa per aver restituito le veneri preistoriche, capolavori d’arte intagliati nell’ avorio delle zanne dei mammuth lanosi. Infine il ritrovamento più di recente e appena pubblicato su una rivista internazionale è quello nella Grotta Paglicci in Puglia».
I quattro nuovi insediamenti paleolitici analizzati (i più importanti di questa epoca) ricoprono una vasta area che va dall’Italia meridionale, alla ex Cecoslovacchia e fino alla Russia. La Revedin spiega ancora: «Questa tecnologia per la produzione di farina sembra quindi indipendente dai climi e dagli ambienti diversi nei quali vivevano i primi sapiens europei. In base allo studio dei granuli di amido ritrovati su queste pietre si è visto che veniva sfruttata una grande varietà di vegetali per la produzione della farina utilizzando differenti porzioni delle varie specie (radici, rizomi, grani e semi). Le farine ottenute probabilmente erano un po’ diverse da quelle che si ricavano oggigiorno dai cereali: erano ricche di fibre e carboidrati complessi, ma prive di glutine. A lavorarle erano le donne, mentre gli uomini si dedicavano alla caccia. Cambia così lo scenario delle conoscenze sull’economia e la vita di 30.000 anni fa. Molte sono le implicazioni di questa scoperta. Dalla possibilità di conservare e trasportare un alimento altamente energetico, alla elaborazione di “ricette”, necessarie per rendere digeribili i carboidrati attraverso vari tipi di cottura- conclude – fino a ricostruire una complessa gestione delle risorse del territorio».
Una scoperta che getta nuova luce sulla nutrizione umana, infatti anche Giuseppe Rotilio, professore di biochimica della nutrizione all’università di Roma Tor Vergata, ha fatto notare al convegno fiorentino «L’uomo del Paleolitico aveva nella sua dieta carboidrati complessi, sotto forma di farina, ma senza glutine. I nostri antenati, già 30mila anni fa, si nutrivano di carne magra, frutta, verdura, semi e appunto, carboidrati senza glutine. L’aspetto legato all’alimentazione, che anticipa di migliaia di anni l’uso dei carboidrati, che oggi sono la base della dieta mediterranea».