Cosa resta a Bruxelles dopo la "colére" dei trattori
Agricoltori, solo il Green deal e retribuzioni più giuste salveranno l’agricoltura europea
La Pac vale quasi 400 mld di euro, ma per l’80% è assorbita dalla minoranza dei grandi produttori che hanno tutto l’interesse a mantenere in vita l’attuale modello fossile
[5 Marzo 2024]
L’ultima riunione del Consiglio agricoltura che si è tenuta a Bruxelles il 26 febbraio scorso è stata l’occasione di una nuova, massiccia e per niente tranquilla mobilitazione di agricoltori, che hanno invaso con i loro trattori le grandi “avenues” che portano alla Commissione e al Consiglio (il Parlamento europeo era invece chiuso, riunito in sessione plenaria a Strasburgo).
Dopo la “colére”, con annessi incendi di decine di copertoni, fuochi in mezzo alla Rue Belliard, transenne abbattute, provocazioni nei confronti della polizia, un totale blocco del quartiere intorno alle istituzioni comunitarie – comportamenti questi come sempre fin troppo tollerati – gli agricoltori hanno lasciato Bruxelles, creando peraltro un gigantesco ingorgo sulle autostrade intorno alla capitale.
Nonostante questi metodi, praticamente tutti i governi e le istituzioni europee continuano a dimostrarsi estremamente sensibili alla rumorosa protesta. Ma riusciranno queste misure a risolvere la crisi profonda e strutturale del sistema agroalimentare europeo, dello squilibrio fra i produttori e dei redditi troppo bassi?
La Politica agricola comune (Pac) esiste dal 1962 per aiutare gli agricoltori a stabilizzare i prezzi e garantire la sicurezza alimentare. Vale un terzo del bilancio dell’Ue, che a sua volta vale l’1% del Pil europeo: per il periodo 2021-2027 è pari a 386,6 miliardi, più 8 miliardi di Next generation Eu. Di questi fondi 270 miliardi sono destinati al sostegno del reddito degli agricoltori. L’Italia riceverà 37,1 miliardi, la Francia 64,8, la Germania 42,5, la Spagna 45,5, e così via.
Di fronte all’avanzare della crisi climatica, per il periodo 2014-2023, Bruxelles ha stanziato anche 330 milioni di euro per gli agricoltori di 22 Paesi che hanno visto aumentare i costi di produzione e subito l’impatto di eventi climatici estremi; ma poiché solo in Italia l’emergenza clima sui campi è costata 6 miliardi di euro nel 2023, è evidente che senza un cambio radicale che intervenga sulle cause strutturali della crisi dell’agricoltura europea e la renda più resiliente, non sarà possibile continuare a sostenerla a forza di sussidi pubblici a oltranza.
Nel corso degli anni la Pac è stata più volte modificata ma non ha cambiato la sua logica sottostante: più produci più ti pago. L’ultima modesta riforma è del 2023, e tra le altre cose tentava di integrare un po’ meglio la questione climatica tra i criteri dell’erogazione dei fondi e aiutare le aree rurali a realizzare la transizione digitale e verde.
Durante l’iter legislativo, delle proposte originali della Commissione è rimasto pochissimo, giusto un’ancora più fastidiosa burocrazia. Nonostante questo sostanziale fallimento, il Green deal è diventato uno degli elementi unificanti delle proteste dei trattori: un paradosso, dato che le misure proposte avevano giustamente l’obiettivo di riorientare gradualmente l’intero sistema agroalimentare verso un modello non solo più sostenibile, ma che integrasse gli interessi dei consumatori e dei produttori con la necessità di preservare una biodiversità sempre più a rischio, qualità e sicurezza alimentare e rispetto per gli animali. Perché?
Perché chi decide davvero sulla Politica agricola comune non sono oscuri funzionari a Bruxelles, ma i governi nazionali in concerto con la Commissione europea, tutti da sempre in allegra combutta con lobby dell’agroindustria potentissime e organizzate nella Copa-Cogeca (in Italia Coldiretti e Confagricoltura) che fanno da sempre soprattutto gli interessi dei 20% degli operatori che assorbono l’80% dei sussidi, quelli più grandi; spingono per continuare su un modello agricolo insostenibile in tempi di clima impazzito, in gran parte basato sulla quantità e quindi spesso su pesticidi, allevamenti e coltivazioni intensive, sull’uso di combustibili fossili e sul proseguimento di una politica di sussidi con pochi vincoli climatici; sullo status quo, insomma.
Ovviamente sono disinteressati a cambiare il loro modello di produzione, e si sono mosse efficacemente contro il programma “Farm to fork” (la parte del Green deal dedicato non solo all’agricoltura ma a tutto il processo produttivo e della distribuzione alimentare), sono riusciti ad arruolare la destra all’Europarlamento per fare cadere o ridimensionare le proposte di normative su pesticidi, emissioni, industriali, ripristino della natura, imponendo nel dibattito pubblico l’idea che tutto quello che sa di verde colpisce la sicurezza alimentare, le nostre “tradizioni” e i più vulnerabili.
Ma le posizioni rappresentate dalle associazioni di categoria più grosse, non sempre corrispondono agli interessi dei “cittadini-consumatori” o della miriade di piccoli e medi agricoltori che non arrivano ad avere un reddito minimo perché non ottengono un giusto prezzo per i loro prodotti. Magari vorrebbero passare al biologico, ma hanno un rapporto subordinato con una grande distribuzione ormai coordinata a livello europeo o al commercio internazionale, che favorisce alcuni produttori rispetto ad altri.
Tanto per fare un esempio su questo ultimo punto, nell’ultimo anno il surplus commerciale agroalimentare dell’Ue ha raggiunto i 6,9 miliardi di euro, con un aumento del 27% rispetto al novembre 2022.
È più che evidente, dunque, che l’adozione di misure protezioniste auspicate da molti, nuocerebbe proprio alla Ue, anche se gli evidenti squilibri tra chi ne approfitta e chi no sono un’altra faccia della non sostenibilità dall’attuale Pac.
Quanto al tema caldissimo delle basse retribuzioni e la differenza fra il prezzo che ricevono per i loro prodotti e quello praticato dalla grande e media distribuzione, non pare ci siano passi avanti, né a livello europeo né a livello nazionale, a parte il tentativo della Francia di intervenire con un rafforzamento dei controlli previsti con la cosiddetta Legge EgaLim; l’aumento dei costi di produzione – che deriva in gran parte dall’aumento dei costi energetici e del carburante fossile da cui dipendono – ha reso insostenibile e inaccettabile questa differenza e ha spinto le proteste di queste settimane.
Ma questo è un tema di carattere strutturale al quale sarà molto difficile trovare una soluzione senza ridurre la dipendenza dai fossili e intervenire sul sistema di intermediazione e distribuzione dei prodotti agricoli, sistema che nessuno pare voler toccare, anche perché si sta diffondendo una certa preoccupazione che le proteste portino ad un aumento dei prezzi al consumo. L’unico sistema che pare davvero funzionare è quando i produttori si mettono insieme e decidono loro le condizioni di vendita, cosa però non sempre possibile.
In conclusione, è chiaro il risultato portato a casa dalle lobby agroindustriali e dalle destre, aiutate da una propaganda mediatica disinformata quando non in mala fede, che ha messo l’Europa, la Pac e il Green deal tutti insieme sul banco degli accusati.
Porterà forse qualche voto e qualche sussidio in più, ma pochi vantaggi tangibili per il settore e per i cittadini-consumatori. Anche su questo è auspicabile un confronto aperto in occasione delle prossime elezioni europee.