Istat: l’intervento dello Stato «aumenta il rischio di povertà» per i giovani italiani
Anche quando poveri, rimangono ai margini di un welfare state che per loro non diminuisce ma anzi accresce la disuguaglianza
[21 Giugno 2017]
Il sistema di tasse e benefici fiscali vigente in Italia, nato per ridurre disuguaglianza e rischio di povertà tra i cittadini, oltre che per finanziare la produzione di beni e servizi pubblici, è oggi un meccanismo che drena risorse dai giovani italiani già provati dalla crisi – dando troppo poco in cambio. A certificarlo è l’Istat, nel suo rapporto La redistribuzione del reddito in Italia, pubblicato oggi.
Non solo dunque nel nostro Paese la disuguaglianza nei redditi di mercato è aumentata negli ultimi 20 anni più che in ogni altra nazione Ocse (Istat 2016): come già sappiamo lo Stato italiano si è dimostrato il peggiore in Europa nel frenare l’aumento nei livelli di diseguaglianza generatisi sul mercato durante la crisi (Istat 2017), e oggi l’Istat specifica che questo aumento della disuguaglianza ha messo al muro soprattutto le fasce più giovani, per i quali l’intervento dello Stato «aumenta» anziché ridurre il rischio di povertà. In che modo?
A livello generale, in Italia la misura della diseguaglianza del reddito primario (ovvero quello guadagnato sul mercato), è pari nel 2016 a 45,2 punti percentuali dell’indice di Gini – che varia tra 0 in caso di distribuzione perfettamente egualitaria dei redditi a 1, che corrisponde alla massima diseguaglianza (i valori sono moltiplicati per 100). Considerando l’intera popolazione italiana, l’intervento dello Stato aiuta a frenare la disuguaglianza: «Dopo i trasferimenti e il prelievo, la diseguaglianza del reddito disponibile risulta significativamente inferiore, pari a 30,1: l’intervento pubblico riduce quindi la diseguaglianza di 15,1 punti». Non per i giovani, però.
L’analisi delle stime del rischio di povertà per le diverse classi di età prodotta dall’Istat mostra infatti «un aumento del rischio di povertà, dopo l’intervento pubblico, per i giovani nella fascia di età dai 15 ai 24 anni (dal 19,7 al 25,3%) e per quelli dai 25 ai 34 anni (dal 17,9 al 20,2%)». Come mai?
L’Istat ricorda che «la principale funzione del sistema previdenziale, che storicamente costituisce il pilastro centrale dei sistemi di welfare moderni, consiste nel prelevare risorse dagli attivi per trasferirle agli inattivi». Entro una certa misura, è dunque normale che ad essere penalizzati siano i giovani, teoricamente nel pieno della loro attività lavorativa. Il paradosso è che su questa fascia di popolazione si concentra il peso dello Stato anche quando si trova in povertà, ricevendo in cambio benefici troppo esigui. «Lo svantaggio relativo dei giovani in età attiva non dipende tanto dalla priorità assegnata dal sistema alla redistribuzione previdenziale, ma soprattutto dalle difficoltà di ingresso e di permanenza nel mercato del lavoro, segnalate dagli elevati tassi di disoccupazione femminile e giovanile», precisa l’Istat. Difficoltà che lo Stato ancora non è riuscito a lenire, mentre – naturalmente – il prelievo fiscale non si arresta.
«Per esempio – argomenta l’Istat – soltanto il 16,3% degli individui fra i 25 e i 34 anni del quinto più povero avanza nella scala dei redditi grazie all’intervento pubblico. Nello stesso tempo, fra gli individui dai 25 ai 34 anni del quinto più povero di reddito primario, l’83% dopo l’intervento pubblico non migliora la propria posizione, mentre il 65% di quelli del secondo retrocede». Al contempo, un «limite evidente del sistema dal punto di vista dell’equità è la debole tutela accordata ai minori in presenza di bassi livelli del reddito familiare: per effetto dell’intervento pubblico il rischio di povertà aumenta dal 20,4 al 25,1% per chi ha meno di 14 anni», ragazze e ragazzi troppo giovani perché possa essere chiesto a loro di caricarsi sulle spalle il peso del welfare state italiano.
Eppure, anche «il confronto fra le coppie giovani e adulte senza figli e quelle con figli minori rivela una insufficiente tutela dei carichi familiari. Quasi la metà delle famiglie con minori dopo l’intervento pubblico arretra in un quinto inferiore, mentre soltanto il 3% migliora la propria posizione. I monogenitori con figli minori sono i meno tutelati: il 20% si trova nel quinto più povero della distribuzione primaria, percentuale che aumenta al 41,6% dopo i trasferimenti e il prelievo».
Non è dunque facile biasimare quelle giovani coppie, in larga parte già in precario equilibrio economico, non si fidano a sufficienza del sostegno statale per mettere al mondo figli, aggravando però al contempo la già acuta crisi demografica nazionale. Si tratta di un circolo vizioso che mina alle basi ogni possibilità di sviluppo sostenibile per l’intero Paese (e per tutte le fasce d’età): se neanche i più giovani – ovvero, in media, i più istruiti e aperti alla modernità, nonché i più attenti alla necessità di un nuovo e più sostenibile modello di sviluppo – sono messi in condizione di esprimere le proprie potenzialità, ma anzi vengono penalizzati dall’intervento dello Stato, non c’è ambizione che regga il confronto con la realtà.