Il 50,1% ha al massimo la terza media

La rivoluzione verde può attendere: Istat, in Italia poco istruita la metà dei cittadini

Una popolazione in declino e sempre più anziana, dove i giovani non sono valorizzati, è impreparata a gestire la transizione ecologica e tecnologica in corso

[16 Dicembre 2020]

Uno che la rivoluzione ha provato a farla davvero, Ernesto Che Guevara, diceva che “un popolo che non sa né leggere né scrivere, è un popolo facile da ingannare”. Mutatis mutandis e anche senza una situazione culturale così catastrofica, di fronte alla rivoluzione tecnologica e a quella ecologica che serve e servirebbe per salvare questo nostro Pianeta malato, sapere che in Italia il livello di scolarizzazione è ancora molto basso – il 50,1% dei cittadini al massimo ha la terza media – sinceramente deve preoccupare. Su più livelli, perché vuol dire che l’istruzione continua a non avere quella capacità di catalizzare l’interesse dei ragazzi che poi disperdono anche tutto l’investimento che lo Stato (in altre parole ogni contribuente, ndr) fa su di loro.

A certificare questa situazione è l’Istat, che ieri nel suo Censimento permanente della popolazione e delle abitazioni mette in fila i dati: al 31 dicembre 2019, tra la popolazione di 9 anni e più il 35,6% ha un diploma di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale, il 29,5% la licenza di scuola media, il 16% la licenza di scuola elementare. I laureati e le persone che hanno conseguito un diploma di alta formazione artistica, musicale e coreutica (Afam) sono il 13,9%, mentre analfabeti e alfabeti senza titolo di studio raggiungono il 4,6%. Va peraltro aggiunto che in realtà le cose stavano pure peggio, dato che complessivamente nel 2019 sono aumentate “le persone in possesso di titoli di studio più elevati rispetto a otto anni prima. In particolare, si contano quasi 36 diplomati (31 nel 2011) e 14 laureati (11 nel 2011) ogni 100 cento individui di 9 anni e più mentre i dottori di ricerca passano da 164.621 a 232.833, con un incremento pari a più del 40%”.

Se è vero che il titolo di studio non ha nulla a che vedere con l’intelligenza di una persona, è vero anche che spesso rappresenta una variabile proxy delle sue competenze. Considerando anche che in Italia c’è un enorme problema di analfabetismo funzionale, ovvero  di “incapacità di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana”, tutto questo si traduce, in pratica, nell’incapacità di comprendere, valutare e usare le informazioni necessarie a partecipare in modo attivo alla società contemporanea e alla necessaria transizione ecologica.

Il tutto sta inoltre dentro un progressivo invecchiamento della popolazione, che peraltro è tornata sotto quota 60 milioni. Il numero di anziani per bambino passa da meno di 1 nel 1951 a 5 nel 2019 (era 3,8 nel 2011) e l’indice di vecchiaia (dato dal rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e quella con meno di 15 anni) è notevolmente aumentato, dal 33,5% del 1951 a quasi il 180% del 2019 (148,7% nel 2001). Non solo, invecchiano pure gli stranieri, che sono stati finora l’unico traino sul piano delle nascite, o meglio, hanno permesso che la popolazione non si decimasse ancora di più.

C’è una correlazione, quindi, tra il contesto suddetto e i dati sul lavoro: tra la popolazione residente di 15 anni e più, le forze di lavoro ammontano al 52,5%, dal 50,8% del censimento 2011 mentre calano gli inattivi (47,5% da 49,2%. Gli occupati salgono al 45,6% dal 45,0% del 2011 (23.662.471 da 23.017.840). La quota di disoccupati passa invece dal 5,8% al 6,9%.

La buona notizia è che rispetto al 2011, diminuiscono, sia in termini assoluti che percentuali, le persone che non hanno concluso con successo un corso di studi (dal 6% al 4,6%) e quelle con al massimo la licenza di scuola elementare (dal 20,7% al 16,0%) e di scuola media (dal 30,7% al 29,5%), ma sono piccoli passi.Mentre per quello che servirebbe al nostro Paese servirebbe andare di corsa.

Il nodo è che c’è un grosso problema di fondo che sta minando l’orizzonte possibile di una società più sostenibile ambientalmente, socialmente ed economicamente. Se infatti c’è un evidente rapporto in positivo tra la pressione ambientale e la riduzione della popolazione, in Italia questo processo non governato sta portando solo a un welfare che peggiora di giorno in giorno a causa dell’assenza di un ricambio generazionale e di una classe politica che risponde probabilmente alle esigenze di quella classe che è la più ampia, ma anche la meno propositiva italiana.

Una generazione, quella dei 45-65enni che non è particolarmente scolarizzata e soprattutto dimostra di non avere – essendo in larga parte quella che governa – una chiara volontà di far cambiare in chiave sostenibile le proprie scelte politiche. I giovani, quindi, o sono ‘depressi’ a seguito di dove nascono – è fortissimo il divario nord-sud – o non trovano comunque la loro strada spesso perdendosi lungo la strada dell’istruzione, persino quella dell’obbligo.

Come ha recentemente osservato su greenreport l’economista Giovanni Marin, le tendenze demografiche in atto – che s’incrociano con una transizione tecnologica, fiscale e finanziaria – rappresentano uno degli elementi fondamentali da gestire se vogliamo raggiungere un orizzonte di sostenibilità: per affrontarle davvero è necessario mettere al centro il lavoro e (dunque) politiche formative adeguate.