Nei primi 10 mesi l’Italia ha esportato oltre 1 mld di Smc di gas, +337,6% sul 2020
Le industrie energivore chiedono gas italiano, ma intanto ne esportiamo sempre di più
«Le industrie dell’acciaio, della carta, del cemento, della ceramica, della chimica, delle fonderie e del vetro e della calce sono nella concreta impossibilità di proseguire con le attività produttive»
[28 Dicembre 2021]
Nel corso degli anni l’Italia ha accarezzato a lungo – con alterni successi – l’idea di conquistarsi un ruolo di “hub europeo del gas”, ma nel momento di massimo bisogno non sta ottenendo gli sperati benefici.
L’ultimo aggiornamento reso disponibile dal Mise, con dati gennaio-ottobre 2021, mostra che nei primi dieci mesi di quest’anno il consumo nazionale di gas è stato pari a 58,7 mld di Standard metri cubi (Smc) di gas, mentre ne abbiamo importati 59,6 e prodotti in Italia 2,7. Del gas estratto o in transito sul suolo nazionale – arrivato tramite i gasdotti e rigassificatori attivi lungo lo Stivale – ne tratteniamo però solo una parte, con le esportazioni in crescita vertiginosa a 1,096 mld di Smc nell’ultimo anno (+337,6%), di cui 355 solo nel mese di ottobre (+592,8%).
Un dato che stride con la volontà manifestata dalle industrie energivore, ma anche dal ministro Cingolani, di raddoppiare la produzione nazionale di gas per contenere l’impennata delle bollette, in crescita proprio perché le materie prime scarseggiano dopo i disequilibri innescati dalla pandemia.
Il problema cui far fronte è oggettivo: le associazioni delle industrie energivore, riunite ieri nel bresciano presso Fonderia di Torbole, denunciano che le «industrie dell’acciaio, della carta, del cemento, della ceramica, della chimica, delle fonderie e del vetro e della calce sono nella concreta impossibilità di proseguire con le attività produttive». Si tratta di comparti che occupano 350mila persone, il doppio considerando anche l’indotto, e che in molti casi svolgono anche un ruolo primario come riciclatori all’interno dell’economia circolare.
Il prezzo del gas naturale in Italia è cresciuto infatti di oltre il 671% da novembre 2020 a novembre 2021, superando negli ultimi giorni i 130 €/MWh, mentre il prezzo dell’energia elettrica nelle prime due settimane di dicembre ha raggiunto il picco storico di 374 €/MWh (+280% rispetto al valore di gennaio 2021 e +650% rispetto a gennaio 2020).
Come reagire? Le industrie energivore propongono due approcci diversi ma complementari su elettricità e gas, dal punto di vista sia congiunturale sia strutturale (in allegato il documento completo, ndr).
Guardando alla congiuntura, per il gas le industrie energivore chiedono un aumento della remunerazione del servizio di interrompibilità tecnica dei consumi gas prestato dai soggetti industriali; un’azione sulla fiscalità e la parafiscalità gas, dando corpo al decreto Gasivori in attesa dal 2018; cessione di una parte della produzione nazionale di gas naturale per l’anno 2022 destinata ai settori manifatturieri gasivori a rischio delocalizzazione (consumo complessivo circa 7 mld di mc/anno). Per il settore elettrico, invece, le prime tre richieste vertono sulla compensazione dei costi indiretti derivanti dal meccanismo di scambio di quote di CO2 (Ets), la cui bozza di Decreto è stata recentemente approvata dalla Commissione europea; la salvaguardia e il rafforzamento della remunerazione dell’istituto del servizio interrompibilità per la sicurezza del sistema elettrico; un incremento delle agevolazioni per i settori “energivori” con riferimento alle componenti parafiscali della bolletta elettrica.
Tutti elementi che meriterebbero un approfondimento governativo e parlamentare, a fronte di una situazione di crisi per la tenuta socio-economica del Paese (e che si abbinano alle proposte già arrivate dalle associazioni ambientaliste per contenere l’aumento delle bollette per i cittadini, e non solo per le industrie energivore).
Si tratta della declinazione in salsa italiana dei “finanziamenti adeguati” richiesti dalle associazioni europee delle industrie energivore, spostando in qualche modo sulla collettività parte dei costi che deve sopportare il comparto: aiuti di Stato per cui sarebbe giusto chiedere anche qualcosa in cambio, in termini di investimenti in sostenibilità ambientale e sociale, come non è stato fatto un anno fa in piena pandemia.
Ma è soprattutto sulle misure strutturali che esplode la contraddizione tra la transizione ecologica e le richieste delle industrie energivore.
Guardando al mercato elettrico, dal punto di vista strutturale le industrie energivore ritengono «necessario intervenire sia accelerando il processo autorizzativo per lo sviluppo delle tecnologie di produzione da fonte rinnovabile, con particolare riferimento agli impegni delle Regioni per identificare le aree idonee per la costruzione della nuova capacità di generazione, sia procedendo rapidamente a una riforma del mercato in grado di promuovere la generazione rinnovabile e trasferire al consumatore finale il trend di riduzione del costo delle nuove tecnologie, in relazione alla loro maggiore efficienza in termini di Lcoe». Basti pensare che, secondo la principale associazione confindustriale attiva nel comparto elettrico – Elettricità futura – se avessimo già raggiunto gli obiettivi Ue al 2030 risparmieremmo 31 miliardi di euro ogni anno grazie alle rinnovabili.
Passando però agli interventi strutturali sul fronte del gas, le stesse industrie energivore mettono al primo posto la necessità di «aumentare la capacità di estrazione dei giacimenti nazionali dagli attuali 4 Mld di mc/anno ad 8, investendo sulle attuali piattaforme», nonostante la crisi climatica in corso, le riserve di gas risibili in disponibilità italiana e l’export in forte crescita evidenziato dal Mise: prima di ipotizzare l’apertura di nuovi rubinetti, varrebbe forse la pena capire se e come indirizzare il gas già disponibile verso le industrie energivore (senza contare che le potenzialità inespresse del biometano, analogo rinnovabile del gas naturale, ammontano almeno a 9 miliardi di metri cubi anno). Esplorando al contempo le successive due richieste avanzate dal comparto: rivedere la struttura dei contratti di importazione (take or pay) dei principali operatori (attualmente circa l’80% dei contratti di approvvigionamento sono indicizzati a prezzo spot, necessario rivedere i criteri di indicizzazione dei contratti); un nuovo meccanismo da applicarsi agli scambi cross-border tra Stati membri Ue che eviti la creazione di barriere tariffarie, lo sviluppo di regole comuni per la gestione degli stoccaggi europei e una strategia in merito alla sicurezza e competitività di approvvigionamento.