Mai raggiunto un livello tanto alto. E i Paesi ricchi consumano 10 volte più dei poveri
Onu, nel 2017 l’umanità ha estratto dall’ambiente 88,6 miliardi di tonnellate di materie prime
I danni collegati hanno portato a 19 milioni di morti premature l'anno. Ma una strada per cambiare rotta ancora c’è
[4 Dicembre 2017]
Nel 1970 l’umanità estraeva materie prime dall’ambiente per 22 miliardi di tonnellate l’anno, cresciute a dismisura fino alla quota quota 70 miliardi di tonnellate raggiunta appena quarant’anni dopo, nel 2010. Attenzione, avvertivano dall’Onu lo scorso anno: se tutti i 7,4 miliardi di esseri umani vivessero secondo i canoni occidentali l’estrazione sarebbe 2,5 volte quella attuale e, in ogni caso, continuando di questo passo nel 2050 dovremmo estrarre dal pianeta 180 miliardi di tonnellate di materie prime. Non è giusto e non possiamo permettercelo. Il problema è che non abbiamo ancora cambiato rotta, anzi: nel 2017 infatti sono state strappate all’ambiente 88,6 miliardi di tonnellate di materie prime, con un aumento di oltre il 25% rispetto al 2010.
Ad affermarlo è sempre il Programma Onu per l’ambiente (Unep), riunito in questi giorni a Nairobi in assemblea generale, grazie al suo International resource panel (Irp), organismo all’interno del quale lavora anche Alessio Miatto – tra i membri del think tank di greenreport, Ecoquadro.
Nel suo ultimo rapporto Assessing global resource use, l’Irp spiega che già oggi paghiamo cara la nostra ingordigia, essendo ormai 19 milioni le morti premature stimate ogni anno al mondo legate all’estrazione di materie prime: «La quantità di risorse naturali utilizzate è strettamente legata alla quantità di rifiuti finali e alle emissioni generate attraverso il loro uso – hanno dichiarato al proposito Janez Potocnik e Izabella Teixeira, copresidenti Irp – Un controllo efficace dell’inquinamento deve anche mirare a minimizzare l’uso delle materie prime, riducendo quindi lo spreco e le emissioni finali».
Il mondo sta cambiando rapidamente, ma l’Occidente continua a conservare un ruolo – e una responsabilità – di primo piano nella gestione delle risorse naturali. Storicamente, sono stati i paesi ricchi ma poveri di materie prime (come l’Italia) ad importare materie prime dai paesi a basso reddito, che sopportavano sulla propria pelle e sul proprio territorio gli impatti dell’estrazione. Fino al 2000 era un commercio praticamente a senso unico – i paesi ricchi erano gli importatori netti di materie prime, tutti gli altri gli esportatori – ma il trend è «cambiato radicalmente nel 2017», si legge nel rapporto Irp. «I paesi ad alto reddito esportano oggi 1 miliardo di tonnellate di materie prime, principalmente guidati dagli Stati Uniti e dalle esportazioni in rapida crescita dell’Australia, mentre i paesi a reddito medio-alto ne importano circa 750 milioni di tonnellate». Ora sono (anche) le popolazioni dei paesi ricchi a sopportare il crescente peso dell’estrazione, come mostrano gli Usa a caccia di shale oil e gas, e questo potrebbe aiutare ad innalzare l’attenzione di tutti su un problema sempre più globale.
Anche perché, ad oggi, è sempre l’Occidente a essere chiamato per primo a mostrare che un tipo diverso di sviluppo è possibile, poiché rimaniamo noi i più voraci consumatori di risorse naturali. Sebbene più della metà del consumo globale di materie prime nel 2017 sia andata a soddisfare la domanda di Asia e Pacifico, la material footprint della regione è stimata in 11,4 tonnellate procapite di materie prime consumate all’anno; il Nordamerica è a 30, l’Europa a 20,6 e tutte le altre regioni del mondo a meno di 10. Su base pro-capite, è evidente che «i paesi ad alto reddito continuano a consumare 10 volte più materiali rispetto ai paesi a basso reddito», sottolinea l’Irp, alimentando un circolo vizioso d’ingiustizia che ci si ritorce contro.
Com’è naturale non possiamo evitare di estrarre materie prime, e sarebbe illusorio pensare che l’avanzata della green economy possa sfuggire a quest’assunto. La buona notizia è però che il circolo vizioso si può spezzare. Già oggi, come mostra il divario tra la material footprint di Europa e Nordamerica, è possibile godere di una buona qualità di vita con un più basso utilizzo di risorse naturali; inoltre, la produttività delle risorse naturali è cresciuta dal 1970 a oggi molto di più di quella del lavoro o dell’energia (come mostra il grafico a fianco, ndr), e il trend continua a salire. Quel che più manca oggi è inseguire una maggiore efficienza nell’impiego di risorse naturali insieme a una strada per l’economia circolare, mantenendo una visione sistemica dei problemi: non è possibile lottare a compartimenti stagni contro inquinamento, cambiamento climatico, esaurimento delle risorse naturali. Va fatto insieme, e questo permetterà non solo di vivere in un ambiente più sano, ma anche di godere di maggior benessere economico.
Come spiegano dall’Irp, le politiche che favoriscono l’uso efficiente delle risorse possono ridurne il consumo del 26% al 2050, tagliando al contempo le emissioni di gas serra di un ulteriore 15-20%, e più che compensare i costi della transizione offrendo benefici economici annuali pari a 2 trilioni di dollari rispetto alle tendenze attuali. Tali politiche devono agire a livello coordinato, su più livelli: anche i singoli Stati hanno un ruolo importante.
Tra le buone pratiche, l’Irp cita ad esempio la Svezia, che all’inizio di quest’anno ha introdotto un taglio dell’Iva dal 25 al 12% a favore delle riparazioni di alcuni beni di consumo domestici, anziché favorire l’acquisto di nuovi beni. L’Italia invece, per citare un Paese a caso, non solo non ha una misura del genere da poter vantare, ma neanche una strategia nazionale per l’uso efficiente delle risorse o anche solo degli incentivi al riciclo. Eppure continuiamo a importare 155 milioni di tonnellate l’anno di materie prime dall’estero per soddisfare i nostri bisogni. Un paradosso che prima o poi ci troveremo costretti ad affrontare: sarebbe assai meglio farlo per tempo e con cognizione di causa, prima che sia tardi.