Fake news, il 39% degli italiani pensa che la comunità scientifica sia molto divisa sul clima
In realtà il 99,9% degli studi scientifici pubblicati sul tema nell’ultimo decennio concorda che la crisi climatica è in corso ed è colpa nostra
[11 Aprile 2022]
Dopo la pandemia e i vaccini il nuovo tema “caldo” sui media – la guerra in Ucraina – è divenuto il grande terreno per la coltivazione di fake news, ma nel frattempo quelle sedimentate e in crescita sulla crisi climatica continuano a far danni.
Secondo la ricerca Media e fake news: opinioni e attitudini degli italiani nei confronti dell’informazione, svolta da Ipsos per Idmo – Italian digital media observatory, l’hub nazionale contro la disinformazione coordinato dal centro di ricerca Data lab dell’Università Luiss Guido Carli, il 39% degli italiana pensa che la comunità scientifica sia «molto divisa sul tema del cambiamento climatico», dato che scende tra i più giovani al 32%, oltre che tra i più istruiti al 35%.
Tra le fake news analizzate nel rapporto questa è quella che catalizza i maggiori consensi, anche se è i buona compagnia: ad esempio per il 29% del campione ad esempio «l’uso frequente del forno a microonde aumenta il rischio di diffusione di onde elettromagnetiche, nocive per la salute», per il 17% «ci sono prove che mostrano che le onde radio del 5G abbassano le nostre difese immunitarie», mentre per un altro 13% «dietro lo scoppio della pandemia c’è Bill Gates, fondatore della Microsoft corporation».
Partiamo subito dal dire che quella sul clima, come le altre, rientra appunto tra le fake news. Ormai molti studi pubblicati su riviste scientifiche peer-review mostrano che il 97% o più degli scienziati climatici concorda che la crisi climatica sia in corso a causa delle attività umane, con l’ultima analisi di questo tipo a mostrare che il 99,9% degli studi pubblicati nel merito nell’ultimo decennio è arrivato alla stessa conclusione.
Il che naturalmente non esclude che possano esserci anche autorevoli esperti convinti del contrario: è però il consenso maturato all’interno della comunità scientifica a fornirci una bussola affidabile, non la voce fuori dal coro che ci fa piacere ascoltare perché sostiene quello che ci fa piacere sentire.
Una differenza che non è sempre è facile cogliere, tanto che gli italiani pensano che a sbagliare in fatto di “fake news” siano essenzialmente gli altri, come emerge anche dalla ricerca Ipsos: «Rileviamo un ampio scostamento tra la percezione di essere personalmente in grado di distinguere fatti reali dalle “fake news” (73% crede di esserne in grado) e la considerazione di quanto sia in grado di farlo una persona media in Italia (solo il 35% crede che sia in grado)».
Come uscirne? Secondo l’80% degli stessi intervistati, l’arma su cui puntare è quella del debunking, ovvero smontare punto per punto le fake news con dati validati dalla comunità scientifica. Un’operazione che ha certamente la sua utilità, anche se – soprattutto su canali come i social network, di per sé particolarmente soggetti a creare le cosiddette camere dell’eco – il rischio di un’eterogenesi dei fini è molto alto: si può facilmente finire per polarizzare ancora di più il dibattito pubblico, soprattutto se il debunking viene portato avanti dall’esperto di turno con toni aggressivi e sprezzanti dell’altrui opinione.
Meglio galleggiare nell’incertezza che nella chiusura ideologica, unendo una cultura dell’umiltà a quella del pragmatismo, a partire dalle pubbliche istituzioni che sono chiamate a uno sforzo ulteriore nel promuovere un’informazione non gridata ma di qualità, partendo da uno dei pochi vantaggi che ancora restano su questo fronte: la fiducia nella scienza, che ancora resiste.
Da una parte l’86% degli intervistati Ipsos è preoccupato per la diffusione della disinformazione in Italia, dall’altra la scienza «ha un’immagine fortemente positiva nella mente degli italiani». L’81% la trova coinvolgente, il 79% basata su dati, il 75% oggettiva e il 74% orientata al bene comune. Dare voce agli scienziati in grado di veicolare i messaggi maturati nel consesso della comunità scientifica rappresenta dunque un’arma preziosa per ricostruire fiducia tra l’autorità generalmente intesa e il grande pubblico. Con la consapevolezza che una minoranza tra i cittadini rimarrà comunque sempre refrattaria, chiamando le istituzioni pubbliche alla capacità di resistere con buone ragioni (e non fomentare, come spesso capita durante le sindromi Nimby-Nimto) al dissenso.
Al contempo, occorre nutrire la possibilità del pubblico di elaborare a fondo queste informazioni e farsi parte attiva (e costruttiva) del dibattito pubblico, cosa che con l’attuale livello di analfabetismo funzionale del Paese resta purtroppo molto difficile: recuperare terreno dovrebbe essere una priorità per il buon funzionamento della democrazia in Italia.