Il grande insegnamento della natura indica cosa fare dopo la pandemia
Sars-Cov-2 ci obbliga a riflettere molto seriamente sulla situazione mondiale che abbiamo prodotto e ad agire rapidamente per invertire la rotta dei modelli economici sin qui seguiti
[6 Novembre 2020]
Alla luce della situazione mondiale presentata dalle numerosissime ed autorevoli ricerche scientifiche che continuamente vengono pubblicate sullo stato di salute delle sfere interconnesse del sistema Terra (l’atmosfera, l’idrosfera, la geosfera, la pedosfera, la biosfera), risulta chiaramente che la nostra antroposfera ha ormai profondamente trasformato tutte le altre sfere, intaccando pesantemente anche le loro interrelazioni e le loro dinamiche evolutive.
Ecco perché, al di là di una ufficializzazione dell’International commission on stratigraphy dell’International union of geological sciences (Iugs), già da tempo l’intera comunità scientifica parla chiaramente dell’epoca degli umani – ovvero dell’Antropocene –, l’incredibile periodo attuale che stiamo vivendo e che potrebbe, una volta formalizzato dalla comunità dei geologi, diventare addirittura una nuova unità geologica nella scala con la quale abbiamo classificato la storia dei 4.6 miliardi di anni di vita del nostro meraviglioso pianeta (il Geological time scale).
Nell’ambito della Commissione internazionale sulla stratigrafia nel 2009 è stato istituito un apposito working group sull’Antropocene coordinato dal noto geologo Jan Zalasiewicz, per valutare alla luce dei criteri della stratigrafia geologica seguiti per classificare la scala dei tempi geologici, gli effetti ad ampio raggio dell’influenza umana su parametri stratigrafici significativi.
Il gruppo di lavoro si è già espresso favorevolmente in occasione del World geological congress del 2016 e con un ulteriore voto formale nel 2019, e l’ultimo libro pubblicato da alcuni componenti del gruppo (The Anthropocene as a geological time unit pubblicato dalla Cambridge University press nel 2019, a cura di Jan Zalasiewicz, Colina Waters, Mark Williams e Colin Summerheyes) fornisce una ricchissima documentazione in merito (inoltre due ottimi libri in italiano sull’Antropocene sono: Simon Lewis e Mark Maslin “Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene”, Einaudi 2019, e quello di Erle Ellis, da me curato in edizione italiana, “Antropocene. Esiste un futuro per la Terra dell’uomo”, Giunti).
La drammatica pandemia dovuta al virus Sars-Cov-2 ci obbliga a riflettere molto seriamente sulla situazione mondiale che abbiamo prodotto e ad agire rapidamente per invertire la rotta dei nostri modelli economici sin qui seguiti. Il prossimo decennio costituisce uno spazio temporale cruciale per cambiare decisamente rotta e impostare una sana ed armonica relazione tra gli esseri umani e la natura. Conservare e ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità del pianeta costituisce una sfida improrogabile.
Come ha ben ricordato il recente Living planet report 2020 del Wwf, un problema fondamentale per cambiare rotta risiede nella discrepanza tra la “grammatica economica” artificiale che guida le politiche pubbliche e private e la “sintassi della natura” che determina come il mondo reale funziona. A differenza dei modelli standard dello sviluppo e crescita economica, collocare noi stessi e le nostre economie nell’ambito della natura ci aiuta ad accettare che la nostra prosperità sia delimitata da quella del pianeta. Questa nuova grammatica è necessaria in ogni contesto, dalle classi scolastiche ai consigli di amministrazione, dalle amministrazioni locali ai ministeri dei governi nazionali. Ciò produrrebbe un profondo impatto su quello che intendiamo come crescita economica sostenibile, aiutandoci a spingere i nostri leader verso decisioni migliori per garantire a noi e alle generazioni future le vite più salutari, naturali e felici che sempre più persone auspicano.
Il periodo che stiamo vivendo ci obbliga a riflettere sul fatto se sia ancora possibile continuare sulle strade sin qui intraprese per lo sviluppo sociale ed economico delle nostre società, strade che ormai si sono dimostrate molto pericolose per il futuro dell’intera umanità (come dimostra la stessa pandemia che ci sta avvolgendo) o se è invece ormai indispensabile, senza perdere ulteriore tempo, avviare un vero e proprio cambiamento trasformativo del nostro vivere sull’unico pianeta che ci consente di esistere.
L’origine del Sars-Cov-2 riguarda una zoonosi, la trasmissione cioè di un patogeno dagli animali all’uomo che è chiaramente dovuta, come accertato da tutti gli studi che esistono sulle zoonosi, dall’alterazione dei rapporti interspecifici esistenti in natura e dalla gravissima pressione ed errata gestione degli ecosistemi naturali da parte umana.
Sono tantissimi i virus presenti nelle specie selvatiche e diversi di loro possono, come è già successo spesso, fare il salto di specie (“spillover”), più che mai se noi stessi lo favoriamo con la drammatica invasione degli ecosistemi naturali e con il commercio delle specie selvatiche. Pertanto il problema è certamente medico-sanitario per quanto riguarda la cura, ma fortemente ecologico/ambientale per la prevenzione (vedasi tra i tanti il recente rapporto dell’Unep “Preventing the next pandemic”) .
Si tratta un po’ del cuore della sostenibilità. Possiamo avere uno sviluppo sostenibile solo comprendendo fino in fondo che noi siamo natura e che, come ha detto giustamente Papa Francesco, non possiamo pensare di rimanere sani in un mondo malato. Infatti una delle basi fondamentali della sostenibilità è la piena consapevolezza e conoscenza del fatto che noi esseri umani siamo pienamente natura, deriviamo dallo straordinario fenomeno della vita sul pianeta che ha almeno 3.8 miliardi di anni e la nostra specie esiste come tale, l’Homo sapiens, da circa 250.000 anni, e si è diffusa su tutto il pianeta modificandolo profondamente, intervenendo pesantemente anche sui meccanismi dell’evoluzione della vita e distaccandosi progressivamente, culturalmente e materialmente, dal mondo naturale da cui deriva e dipende.
Le più recenti conoscenze scientifiche che stiamo acquisendo sulla straordinaria connessione che lega tutte le componenti della vita sulla Terra, che fanno del nostro pianeta l’unico conosciuto che ospita questo fenomeno nell’intero Universo, sono incredibili e ci documentano come la nostra specie è strettamente legata al resto della vita, compresi i virus, i batteri e gli archeobatteri che sono state le prime forme di vita sulla Terra.
Riferendosi al lichene, un’associazione vivente specifica di funghi e di alghe, così intima intermini di interdipendenza funzionale e così morfologicamente integrata da farne derivare una sorta di nuovo organismo che non assomiglia a nessuno dei suoi componenti, il grande ecologo Eugene Odum (1913-2002) ha scritto nel suo ben noto “Basi di ecologia”, edizioni Piccin, che ha costituito il testo base per tanti studenti universitari in più di due decenni del secolo scorso: “Il modello del lichene potrebbe essere simbolico per l’uomo. Fino ad oggi l’uomo è vissuto come parassita del suo ambiente autotrofo, prendendo ciò che gli occorre senza preoccuparsi del benessere del suo ospite. Gli agglomerati urbani crescono e diventano parassiti della campagna circostante, che deve fornire cibo, acqua e aria e deve degradare enormi quantità di rifiuti. L’uomo deve evolvere verso uno stadio di mutualismo nelle sue relazioni con la natura. Se l’uomo non impara a vivere mutualisticamente con la natura, allora – proprio come un parassita ‘malaccorto’ o‘inadatto’ – sfrutterà il suo ospite fino a distruggere se stesso”.
Oggi sappiamo che la quantità di batteri presenti nei nostri corpi e le attività che svolgono per la nostra esistenza quotidiana sono ingenti e significative, come indicato da tanti studi che sono stati ulteriormente sviluppati con il grande programma internazionale di ricerca dedicato proprio a questo tema, lo Human microbiome project.
Le ultime ricerche pubblicate che hanno cercato di quantificare il numero di cellule del corpo umano e quello delle cellule dei batteri presenti nel corpo di un essere umano medio dal peso di 70 kg hanno indicato che vi sono 38.000 miliardi di cellule batteriche e 30.000 miliardi di cellule umane (Sender R., Fuchs S. e R. Milo, 2016, Revised estimates for the number of human and bacteria cells in the body, Plos One). Quindi anche il corpo di ciascuno di noi è un misto vivente di cellule umane e cellule di batteri in una situazione simbiotica.
Non solo ma nel campo delle ricerche in virologia e batteriologia si sta scoprendo sempre di più la presenza, persino nelle nostre componenti genetiche di tratti significativi provenienti dai batteri e dai virus. Il virologo Guido Silvestri della Emory University scrive, nel suo ottimo libro “Il virus buono” pubblicato da Rizzoli nel 2019: “La microbiologia, cioè la branca della biologia che studia i microrganismi, si è focalizzata, sin dagli albori gloriosi di Koch e Pasteur, su quei batteri e virus capaci di provocare malattie gravi nell’uomo. Il nome stesso virus, che vuol dire “veleno”, deriva da questo accidente storico. In realtà la grande maggioranza dei virus sono del tutto innocui, compresa l’enorme quantità di queste entità che vive negli oceani colonizzando batteri, protozoi, plancton e in casi un po’ speciali altri virus. Una teoria recente suggerisce che la massa totale dei virus marini sia dieci volte quella dei batteri marini, che a sua volta è dieci volte la massa dei protozoi e del plancton, che a loro volta sono dieci volte la massa di pesci. Viviamo tutti, letteralmente, dentro un mare di virus”.
Secondo stime recenti circa l’8-9% del nostro genoma è costituito da retrovirus endogeni (Endogenous retrovirus, gli Erv), mentre l’analisi della storia evolutiva dei geni umani ci documenta la relativa percentuale del nostro genoma che deriva da vari stadi dell’evoluzione della vita sulla nostra Terra e da cui risulta che quasi il 37% è caratterizzato da tratti genetici derivanti da batteri e virus.
Ma i virus hanno anche importanti ruoli nella dinamica dell’intero sistema Terra ed hanno anche un ruolo rilevante, nella relazione evolutiva con la nostra specie. Non è un caso che un gruppo di autorevoli scienziati ha pubblicato nel 2019 un consensus statement per sottolineare lo straordinario ruolo che esercitano i microrganismi nei grandi cicli biogeochimici del sistema Terra (Cavicchioli R. e altri, 2019, Consensus statement: scientists’ warning to humanity: microorganism and climate change, Nature reviews microbiology ).
Tutto ciò non sembra costituire una cultura comune, tanto è vero che i nostri modelli di sviluppo socio-economico non hanno fatto altro che provocare il nostro progressivo allontanamento dalla relazione con il mondo naturale e sono ormai da tempo in chiara rotta di collisione con i sistemi naturali da cui deriviamo e proveniamo e senza i quali non possiamo vivere.
L’economia globale è totalmente ingegnerizzata in funzione della crescita continua, materiale e quantitativa che ritiene la natura, gli ecosistemi, la biodiversità, una sorta di cornucopia senza limiti. Come scrive il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz nel suo “Bancarotta. L’economia in caduta libera (Einaudi, 2010): “La maggior parte di noi non vorrebbe pensare di corrispondere all’idea di uomo che sta alla base dei modelli di economia prevalenti, ossia un individuo calcolatore, razionale, egoista che pensa solo a se stesso e non lascia spazio alcuno all’empatia, al senso civico e all’altruismo. Un aspetto interessante dell’economia è che il modello descrive più gli economisti che non le altre persone e quanto più a lungo gli universitari studiano economia tanto più tendono ad assomigliare al modello”.
La situazione attuale della biosfera a livello mondiale è quindi senza precedenti in tutta la storia dell’umanità. Non è un caso che gli scienziati che studiano e analizzano il complesso funzionamento dello straordinario sistema Terra, hanno sottolineato da qualche decennio, con ampia e ricca documentazione, che la salute e il benessere degli esseri umani non può prescindere dal mantenimento di uno stato vitale e resiliente dei sistemi naturali e della biodiversità che li compone.
La sfida che l’umanità oggi ha di fronte è perciò una sfida epocale. La pressione umana sui sistemi naturali è ormai completamente insostenibile e, con i grandi cambiamenti globali che abbiamo indotto nella natura, la nostra stessa civiltà è a rischio. Questi temi dovrebbero perciò essere al primo posto delle agende politiche internazionali e di quelle nazionali, perché le modalità con i quali verranno affrontati o meno condizioneranno il futuro di noi tutti, il nostro benessere, il nostro sviluppo. Ormai il concetto centrale delle analisi che la scienza ha sin qui definito, è quello della dimostrazione della forte connessione tra lo stato di salute, di vitalità e di resilienza dei sistemi naturali e quello della salute e del benessere degli esseri umani.
La visione centrale riguarda il concetto di una sola salute, umana e planetaria (“One health”), e l’idea di una salute planetaria, Planetary health, connessa e integrata che avvolge natura e esseri umani è ormai consolidata negli ambienti scientifici, da quelli della biomedicina a quelli dell’Earth system science e della Global sustainability.
Consiglio vivamente di leggere il rapporto prodotto nel 2015 dalla Rockfeller foundation e dalla prestigiosa rivista biomedica “The Lancet” e la Commission on planetary health dal titolo “Safeguarding human health in the Anthropocene epoch” (pubblicato su The Lancet), e l’ultimo Global environment outlook del Programma ambiente delle Nazioni unite (Unep) pubblicato nel 2019, intitolato non a caso “Healthy planet, healthy people”.
Il concetto di salute viene definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Who) come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la mera assenza di malattia o infermità”. La perdita che si paga in salute con l’erosione continua dei sistemi naturali che sostengono la nostra esistenza e la nostra salute provvedendo alle basi essenziali della nostra sopravvivenza, è ormai molto significativa per l’umanità intera.
Tutti gli esseri umani necessitano di respirare, bere e mangiare e sono i sistemi naturali con le loro strutture, i processi, le funzioni e i servizi messi a nostra disposizione che ci consentono di vivere e di vivere in buona salute. Indebolire i sistemi naturali significa indebolire inevitabilmente noi stessi. Inoltre anche il concetto di salute umana non riguarda solo la dimensione intragenerazionale, cioè tra le varie componenti umane di età diverse presenti nelle attuali generazioni, ma anche quello intergenerazionale che richiama l’esigenza di garantire uno stato di salute planetario che tuteli le opzioni per una buona salute per le nuove generazioni.
Oggi con il nostro impatto abbiamo trasformato il 75% degli ambienti naturali delle terre emerse ed abbiamo significativamente impattato il 66% degli ecosistemi marini. Abbiamo modificato le dinamiche del sistema climatico, nonché i grandi cicli biogeochimici del carbonio, dell’azoto e del fosforo, abbiamo prodotto una varietà e quantità straordinariamente significativa di sostanze chimiche che non sono metabolizzabili dai sistemi naturali (il caso delle plastiche, solo per fare un esempio, è emblematico in questo senso), abbiamo modificato il ciclo dell’acqua, abbiamo acidificato gli oceani, stiamo modificando l’evoluzione della vita sul pianeta e modifichiamo persino l’ecologia dei virus. Inoltre oltre ad aver fatto estinguere un numero imprecisato di specie viventi si ritiene che ne stiamo minacciando di estinzione almeno un milione di specie, come indicato dall’autorevole Global assessment report on biodiversity and ecosystem services dell’Ipbes pubblicato nel 2019.
Qualsiasi ripartenza post Sars-Cov-2 non può che essere basata sul riconoscimento centrale con le conseguenti azioni applicative, del valore della tutela e del ripristino degli ecosistemi naturali, fondamentali per la salute umana e per acquisire maggiore resilienza rispetto ai gravissimi rischi che subiremo per tante altre crisi ambientali che già ci stanno avvolgendo, come quelle derivanti dal cambiamento climatico. Importanti soluzioni sono rappresentate dalle green infrastructures e le nature based solutions.
Non è un caso che la Commissione europea e il Consiglio europeo continuano a sottolineare la rilevanza dell’impegno per il Green deal e recentemente sono state prodotte e presentate le due Strategie sulla Biodiversità e sull’Agricoltura (Farm to fork).
Il nostro Paese ha indubbiamente un gigantesco problema di sana e corretta gestione del territorio, distrutto dalla perdita di suolo, dalla frammentazione, ecc. e una vera e grande opera pubblica dovrebbe essere proprio il ripristino del nostro meraviglioso territorio, il restauro di tanti ambienti naturali terrestri e marini che purtroppo abbiamo deteriorato.
Gli scienziati del sistema terra sin dal 2009 e poi con ulteriori elaborazioni successive, hanno individuato i confini planetari (planetary boundaries) che l’umanità non dovrebbe sorpassare pena effetti a cascata disastrosi, estremamente difficili da gestire da parte delle nostre società.
Sono stati individuati nove grandi problemi planetari tra di loro strettamente connessi e interdipendenti e cioè il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai nuovi prodotti antropogenici. Per quattro di questi problemi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suoli ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi.
Come abbiamo visto in altri articoli precedenti che ho scritto per “Greenreport” complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi, possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio, definendo così quell’area come “uno spazio operativo sicuro” per l’umanità (Safe and operating space, S.O.S.). Il concetto dei confini planetari consente di evidenziare in maniera efficace complesse questioni scientifiche a un vasto pubblico mettendo in discussione le concezioni tradizionali delle nostre impostazioni economiche. Mentre l’economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una “esternalità” che ricade in gran parte fuori dell’economia monetarizzata, gli earth system scientists hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra che eserciterebbero effetti devastanti sull’intera umanità. Tali confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali a garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello che si è avuto durante il periodo abbastanza stabile dell’Olocene.
È stata inoltre creata per questo l’Earth commission costituita da un autorevole team di scienziati del sistema Terra, che si è data il compito di individuare le basi scientifiche per indicare una serie di target che contribuiscono a mantenere le funzioni dei sistemi di supporto della vita sulla Terra, per il clima, i suoli e i territori, gli oceani, le acque interne e la biodiversità. Questo lavoro declina e rafforza quello dell’attuale science based targets network dedicato soprattutto al cambiamento climatico, che rientra nel gruppo di iniziative condotte dalla Global commons alliance e dal grande programma internazionale di Global sustainability future earth.
Il dibattito scientifico e le applicazioni pratiche del concetto dei confini planetari si è andato sempre più diffondendo e ampliando nei dibattiti di politica internazionale incrociandosi con le riflessioni di carattere sociale ed è stato adottato da numerosi organismi delle Nazioni unite, dal World business council for sustainable development, dal World economic forum, ecc.
La conoscenza scientifica costituisce il migliore guardrail per tracciare e praticare politiche e azioni verso la sostenibilità. È evidente che non possiamo avere alcun futuro se distruggiamo la base stessa da cui proveniamo e che ci consente di vivere. Ora dobbiamo assolutamente voltare pagina.