«La distruzione della natura è alla base della crisi coronavirus»
L’appello degli scienziati insieme al ministro dell’Ambiente tedesco: «Ora è il momento di gestire l’emergenza, ma ci sarà un mondo post-pandemia. Per allora dovremo aver compreso le cause di questa crisi se vogliamo prevenire scenari simili in futuro»
[3 Aprile 2020]
I dati relativi all’impatto della pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 sono ancora aleatori, ma quelli che arrivano dalle autorità preposte sono sufficienti a delineare uno scenario inedito nella storia umana: Covid-19 ha già ucciso oltre 50mila persone nel mondo, ne ha contagiate più 1 milione e ha imposto a 3,9 miliardi di individui – circa metà della popolazione mondiale – misure più o meno stringenti di distanziamento sociale e quarantena.
Le pandemie esistono da sempre, ma l’arrivo di tre epidemie da coronavirus in meno di vent’anni (Sars, Mers, e ora Covid-19) non è un colpo di sfortuna: si tratta di rischi strettamente legati all’insostenibilità del nostro modello di sviluppo, che ha portato il tasso totale di estinzione delle specie a un livello che supera dalle decine alle centinaia di volte la media del livello di estinzione verificatasi negli ultimi 10 milioni di anni.
«Ora dobbiamo gestire una crisi acuta, ma ci sarà un mondo post-pandemia. Per allora, al più tardi – avverte il ministro dell’Ambiente tedesco, Svenja Schulze – dovremo aver compreso dovremo aver compreso le cause di questa crisi se vogliamo prevenire scenari simili in futuro. La scienza ci dice che la distruzione degli ecosistemi rende più probabili le epidemie, incluse le pandemie, il che indica che la distruzione della natura è la crisi alla base dell’emergenza coronavirus. All’opposto, questo significa che una buona politica di conservazione della natura in grado di proteggere i nostri ecosistemi è una misura di prevenzione vitale. La comunità internazionale ha l’opportunità di adottare una nuova strategia globale sulla biodiversità dopo la pandemia».
Circa il 70% dei patogeni è arrivato all’uomo passando prima da altri animali e oggi «l’emergere di molteplici malattie – spiega Sandra Junglen, dell’Institute of Virology, Charité University Medicine Berlin – può essere spiegato dall’invasione umana di ecosistemi precedentemente intatti. Quando un’ecosistema viene sbilanciato le malattie infettive possono diffondersi più facilmente, mentre la biodiversità e gli ecosistemi ben funzionanti possono aiutare a prevenire la diffusione di malattie infettive».
Anche il coronavirus Sars-Cov-2 è arrivato all’uomo dal mondo naturale. Studi recenti hanno evidenziato una forte similitudine (96%) tra il genoma di questo virus e un altro coronavirus presente nei pipistrelli; lo spillover zoonotico, ovvero il salto dall’animale all’uomo, probabilmente è avvenuto passando da un animale intermedio – il pangolino – ampiamente utilizzato a scopo alimentare e nella farmacopea cinese, e questi animali vengono spesso venduti in condizioni igieniche precarie all’interno di wet market tradizionali come quello di Wuhan. Sarebbe un errore grossolano però attribuire la colpa della pandemia in corso alle soli negligenze cinesi: la massiccia alterazione degli ecosistemi riguarda tutti noi.
La ricerca tedesca Quantifying interregional flows of multiple ecosystem services – A case study for Germany, pubblicata proprio in questi giorni, mostra chiaramente che «i servizi ecosistemici non hanno confini» e le attuali catene globali del valore rendono questa interdipendenza ancora più evidente: se la Germania dovesse produrre in patria tutto l’olio di palma e la soia che consuma, ad esempio, il 13% del territorio nazionale sarebbe occupato dalle relative coltivazioni. Invece questi prodotti vengono comprati da altri Paesi, dove si deforesta per fare spazio alle piantagioni e rispondere così alla domanda proveniente dall’estero. «Avrebbe molto senso registrare i danni e i costi ambientali causati dai consumi domestici in altri paesi», spiega Aletta Bonn che ha guidato la ricerca. Non sappiamo ad esempio fino a che punto l’Italia utilizza i servizi ecosistemici forniti in altri paesi, ma i rapporti sul capitale naturale aggiornati dal nostro ministero dell’Ambiente ci informano che sono in grave pericolo anche quelli presenti sul nostro territorio nazionale (nonostante ci regalino ogni anno 338 miliardi di euro in servizi ecosistemici).
La responsabilità umana alla base della crisi in corso è purtroppo chiara, delineata con precisione dal Gruppo intergovernativo per la biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes) nel suo ultimo rapporto: 1 milione di specie animali e vegetali (ovvero circa 1/8 di tutte quelle che popolano il pianeta) rischiano di sparire a causa della sesta estinzione di massa, per la prima volta innescata dall’uomo. Una strage che oggi ci si ritorce contro nel modo più doloroso, ma che ci dà anche l’opportunità di cambiare rotta finché siamo in tempo.
«L’umanità dipende dal funzionamento di diversi ecosistemi. Distruggendo gli ecosistemi stiamo anche distruggendo anche i nostri mezzi di sussistenza, come dimostra l’epidemia di coronavirus – osserva Josef Settele dell’Helmholtz Centre for Environmental Research – UFZ, che ha rivestito il ruolo di co-presidente nella stesura del rapporto Ipbes – Ciò che serve non è altro che una riorganizzazione fondamentale a livello di sistema, che copra fattori tecnologici, economici e sociali, compresi paradigmi, obiettivi e valori». Solo una rivoluzione del nostro modello di sviluppo può salvarci: la scelta è nelle mani del genere umano.