La nanotecnologia potrebbe trasformare le piante in produttrici di energia e sensori di inquinanti ed esplosivi
Anche le piante diventano bioniche, al Mit
[18 Marzo 2014]
Nature Materials pubblica una ricerca sulle piante Plant nanobionics approach to augment photosynthesis and biochemical sensing con la quale gli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit), del California Institute of Technology e dell’università turca di Dumlupinar ci fanno fare un salto nel futuro spiegandoci che «L’interfaccia tra organelli vegetali e nanostrutture non biologiche ha il potenziale per impartire agli organelli funzioni nuove e migliorate».
Le piante sono essenziali per la vita sulla Terra, ci forniscono energia abbelliscono l’ambiente in cui viviamo, ma la ricerca del Mit, finanziata dal Dipartimento dell’energia Usa, vuole renderle ancora più utili con nanomateriali che potrebbero migliorare la loro produzione di energia e dare loro funzioni completamente nuove, come ad esempio il monitoraggio di inquinanti ambientali.
Secondo i ricercatori, utilizzando “single-walled carbon-nanotubes” (SWNTs), come impianti d’amplificazione, «La capacità di catturare l’energia luminosa aumenta del 30%, grazie all’integrazione di nanotubi di carbonio nel cloroplasto, l’organello della pianta nel quale avviene la fotosintesi. Utilizzando un altro tipo di nanotubi di carbonio, si può anche modificare le piante per rilevare il gas ossido nitrico».
Si tratta dei primi passi per lanciare in campo scientifico quella che i ricercatori hanno ribattezzato “plant nanobionics” e Michael Strano, Carbon P. Dubbs Professor of Chemical Engineering e leader del team di ricerca del Mit, spiega che «Le piante sono molto attraenti come una piattaforma tecnologica. Si riparano da sole, sono stabilite nell’ambiente esterno, sopravvivono in ambienti difficili, e forniscono la loro fonte di energia e ridistribuiscono l’acqua».
Strano e l’altro principale autore dello studio, il biologo Juan Pablo Giraldo, sono convinti che le piante si possano trasformare in fornitrici di energia autoprodotta e dispositivi fotonici come rilevatori di esplosivi o armi chimiche. I ricercatori stanno anche lavorando all’integrazione di dispositivi elettronici nelle piante e l’idea della “plant nanobionics” nasce da un progetto nel laboratorio di Strano per costruire celle solari auto-riparanti sul modello delle cellule vegetali. Il passo successivo è stato quello di provare a migliorare la funzione fotosintetica dei cloroplasti isolati dalle piante, per un loro possibile utilizzo nelle celle solari.
Su Mit News Anne Trafton spiega che «I cloroplasti ospitano tutti i meccanismi necessari per la fotosintesi, che avviene in due fasi. Durante la prima fase, i pigmenti come la clorofilla assorbono la luce, che eccita gli elettroni che fluiscono attraverso le membrane tilacoidi dei cloroplasti. La pianta cattura questa energia elettrica e la utilizza per alimentare la seconda fase della fotosintesi: la costruzione degli zuccheri. I cloroplasti possono ancora realizzare queste reazioni quando vengono rimossi dalle piante, ma dopo poche ore, cominciano a calare perché la luce e l’ossigeno danneggiano le proteine fotosintetiche. Di solito le piante possono riparare completamente questo tipo di danno, ma i cloroplasti estratti non possono farlo da soli».
Per prolungare la produttività dei cloroplasti i ricercatori li hanno quindi integrati con nanoceria, nanoparticelle di ossido di cerio, che sono potenti antiossidanti che eliminano i radicali dell’ossigeno e di altre molecole altamente reattive prodotte dalla luce e dall’ossigeno, proteggendo i cloroplasti dai danneggiamenti. I ricercatori hanno introdotto la nanoceria nei cloroplasti utilizzando una nuova tecnica che hanno sviluppato: la Lipid exchange envelope penetration (Leep) che consiste nell’avvolgere le particelle con acido poliacrilico, una molecola fortemente caricata, che permette alle particelle di penetrare il grasso delle membrane idrofobiche che circonda i cloroplasti. «In questi cloroplasti, i livelli di molecole dannose sono scesi drasticamente», dicono al MIt. Utilizzando la stessa tecnica, i ricercatori hanno anche incorporato nei cloroplasti i nanotubi di carbonio semiconduttori, “spalmati” nel DNA caricato negativamente.
Generalmente le piante utilizzano solo circa il 10% ella luce solare a loro disposizione, ma al Mit sono convinti che «I nanotubi di carbonio potrebbero fungere da antenne artificiali permettendo ai cloroplasti di catturare lunghezze d’onda della luce che non sono loro range normale, come gli ultravioletti, il verde e vicino all’infrarosso.
«Con i nanotubi di carbonio, che sembrano agire come un “fotoassorbente protesico”, l’attività fotosintetica – misurata dal livello del flusso di elettroni attraverso le membrane tilacoidi – era dl 49% superiore a quella nei cloroplasti isolati senza nanotubi incorporati – si legge nella ricerca – Quando nanoceria e nanotubi di carbonio sono stati messi insieme, i cloroplasti sono rimasti attivi per qualche ora in più».
Poi i ricercatori sono passati alle piante viventi utilizzando la tecnica dell’infusione vascolare per introdurre nanoparticelle nell’Arabidopsis thaliana, una piccola pianta da fiore. Con questo metodo è stata applicata è stata applicata una soluzione di nanoparticelle sulla parte inferiore della foglia che è penetrata negli stomi, i minuscoli pori che normalmente consentono il flusso di anidride carbonica ed ossigeno.
Nelle Arabidopsis thaliana i nanotubi sono arrivati al cloroplasto ed hanno potenziato di circa il 30% il flusso fotosintetico di elettroni. Resta ancora da scoprire come questo maggiore flusso di elettroni influenzi la produzione di zuccheri delle piante e Giraldo dice: «Questa è una domanda alla quale stiamo ancora cercando di rispondere in laboratorio: quale è l’impatto delle nanoparticelle sulla produzione di combustibili chimici come il glucosio».
I ricercatori hanno anche dimostrato di poter trasformare le Arabidopsis thaliana in sensori chimici introducendo m nelle piante nanotubi di carbonio che rilevano il gas di ossido nitrico, un inquinante prodotto dalla combustione. Il laboratorio di Strano ha già sviluppato sensori di nanotubi di carbonio per molte sostanze chimiche, tra le quali il perossido di idrogeno, il trinitrotoluene (l’esplosivo Tnt) e il gas nervino sarin. I ricercatori evidenziano che «Quando la molecola bersaglio si lega ad un polimero avvolto intorno al nanotubo, altera la fluorescenza del tubo. Un giorno potremmo usare questi nanotubi di carbonio per realizzare sensori che rilevano in tempo reale, a livello di singola particella, radicali liberi o molecole di segnalazione che sono a bassissima concentrazione e difficili da rilevare» G
James Collins, un professore di ingegneria biomedica alla Boston University che non ha partecipato alla ricerca, ha detto a MIt News: «Questa è una meravigliosa dimostrazione di come le nanotecnologie possono essere accoppiate alla biologia sintetica per modificare e migliorare la funzione degli organismi viventi, in questo caso le piante. “Gli autori dimostrano bene che le nanoparticelle auto-assemblanti possono essere utilizzate per migliorare la capacità fotosintetica delle piante, così come servire come biosensori basati sulle piante e per ridurre lo stress».
Adattando i sensori a diversi target, i ricercatori sperano di sviluppare piante che potrebbe essere utilizzato per monitorare l’inquinamento ambientale, i pesticidi, le infezioni fungine, o l’ esposizione a tossine batteriche e stanno anche lavorando all’integrazione nelle piante di nanomateriali elettronici, come il grafene.
Giraldo conclude: «In questo momento, quasi nessuno sta lavorando su questo campo emergente. E’ un’opportunità per le persone provenienti dalla biologia vegetale e per la comunità dell’ ingegneria chimica nanotecnologica per lavorare insieme in un’area che ha un grande potenziale.