Coronavirus, Inger Andersen (Unep): «La natura ci sta inviando un messaggio»
La separazione tra politica sanitaria e ambientale è una pericolosa illusione
[26 Marzo 2020]
In un’intervista a The Guardian, la direttrice generale dell’United Nations environment programme (Unep), Inger Andersen ha detto che «Con la pandemia di coronavirus e la crisi climatica in corso, la natura ci sta inviando un messaggio». La Andersen ha aggiunto che «L’umanità stava esercitando troppe pressioni sul mondo naturale con conseguenze dannose» e ha avvertito che «Non riuscire a prendersi cura del pianeta significa non prenderci cura di noi stessi».
La direttrice dell’Unep concorda quindi con i molti scienziati che in questi drammatici giorni dicono che l’epidemia di COVID-19 è stata un chiaro avvertimento sul fatto che nella fauna selvatica esistono malattie molto più mortali e che la civiltà umana sta scherzando con il fuoco, visto che è quasi sempre il comportamento umano a causare la diffusione delle zoonosi negli esseri umani.
In effetti, da anni il mondo scientifico cui aveva messo in guardia, avvertendoci che il riscaldamento globale, la distruzione degli ambienti naturali per far spazio all’agricoltura intensiva, l’estrazione mineraria fin dentro le aree protette, l’espansione edilizia ci portano sempre più a contato con una fauna selvatica sempre più debilitata e sofferente e che questo causa inevitabilmente nuovi focolai di malattia sconosciute.
Un altro problema emergente è quello dei mercati – legali e illegali – di animali vivi e di selvaggina che diventano il posto ideale dove possono miscelarsi e propagarsi le malattie infettive. Il Wwf ricorda che «Per il mondo scientifico, l’uccisione illegale di animali selvatici a scopo alimentare è considerata fra le prime cause di declino delle popolazioni di specie minacciate, in particolare nei paesi in cui l’instabilità politica si riflette anche su quella dei sistemi di gestione e controllo delle proprie risorse.Il consumo di bushmeat (letteralmente “carne di foresta”) è in drammatica crescita in molte aree del mondo e mette a rischio anche la salute umana».
Secondo l’United Nations Office on Drugs and Crime, il commercio illegale e il bracconaggio colpiscono ben 7.000 specie e tra questi, per ricavarne carne, ci sono anche primati come gorilla e scimpanzé, altre scimmie, pangolini, pipistrelli e piccole antilopi. Il Wwf fa notare che «E’ comprovato che il contatto con specie selvatiche come pipistrelli, civette delle palme, scimmie e altri animali (prevalentemente uccelli e mammiferi) possa portare all’insorgere e contribuire alla diffusione di gravi zoonosi. Non a caso le ricorrenti esplosioni di epidemie di Ebola sono spesso collegate al consumo di carne di scimmia contaminata».
La selvaggina di foresta viene consumata non solo nelle aree forestali ma trasportata nei mercati rurali e urbani. Il Wwf ricorda che «Ogni anno, solo in Perù, vengono cacciate e consumate 28.000 scimmie. In Indonesia oltre a scimmie e altri mammiferi selvatici vengono catturate ed esportate 25 tonnellate di tartarughe». Secondo Traffic, «In un solo distretto del Kenya circa l’80% delle famiglie consuma in media 14,1 kg di bushmeat al mese, mentre in una zona rurale del Botswana il 46 % delle famiglie ne consuma circa 18,2 kg. Solo in Centrafrica se ne consuma da 1 a 3,4 milioni di tonnellate all’anno. Ma il bushmeat fa breccia anche nelle aree urbane, dove la carne selvatica viene preferita per il sapore. Il suo prezzo è maggiore della carne domestica e quindi sono le famiglie a reddito più alto a farne maggiore consumo».
Ma come la caccia e il consumo di selvaggina anche il traffico di fauna selvatica o di sue parti di essa mette in diretto contatto gli uomini con gli animali selvatici esponendoli ai virus ospitati dagli animali e, aggiunge il Wwf, «La stretta vicinanza di specie diverse facilita la ricombinazione genetica tra virus diversi e con essa lo spillover, ovvero la capacità di infettare nuove specie. Il virus della SARS – che nel 2002-2003 ha causato pi di 800 morti ed è costato più di 80 miliardi di dollari a livello globale – è emerso dai pipistrelli, è passato alle civette delle palme (un mammifero viverride) e, in ultima analisi, ha infettato le persone nei mercati di animali vivi della Cina meridionale. Ugualmente, si sospetta che la recente epidemia di Coronavirus sia scoppiata in uno dei tanti mercati cinesi, dove sono in vendita animali selvatici tra cui i pipistrelli frugivori e altre specie selvatiche». Un mercato che comporta la perdita di biodiversità e aumenta il rischio di pandemie ma , che produce un giro di affari globale tra i 7 e i 23 miliardi di dollari l’anno. Il Wwf plaude alla decisione della Cina di vietare il commercio di animali vivi a scopo alimentare: «Rappresenta una scelta di fondamentale importanza, ma ancora non sufficiente. Ancora una volta, l’uomo si trova a dover fronteggiare con colpevole ritardo una pandemia favorita dalle sue stesse azioni che avrà costi enormi sia in termini di vite umane che a livello sociale ed economico».
La Andersen ha evidenziato che «La priorità immediata è quella di proteggere le persone dal coronavirus e prevenirne la diffusione. Ma la nostra risposta a lungo termine deve affrontare la perdita di habitat e biodiversità. Mai prima d’ora esistevano così tante opportunità per i patogeni di passare dagli animali selvatici e domestici alle persone. Il 75% di tutte le malattie infettive emergenti provengono ne dalla fauna selvatica. La nostra continua erosione degli spazi selvaggi ci ha portato a vicino ad animali e piante che ospitano malattie che possono saltare agli esseri umani». Poi ha anche ricordato altri impatti ambientali, come i giganteschi incendi boschivi australiani, i record di caldo continuamente battuti e la peggiore invasione di locuste in Kenya da 70 anni e ha riassunto; «Con tutti questi eventi, la natura ci sta inviando un messaggio. Ci sono troppe pressioni allo stesso tempo sui nostri sistemi naturali e qualcosa deve succedere. Siamo intimamente interconnessi con la natura, che ci piaccia o no. Se non ci prendiamo cura della natura, non possiamo prenderci cura di noi stessi. E mentre andiamo verso una popolazione di 10 miliardi di persone su questo pianeta, dobbiamo entrare in questo futuro armati della natura come il nostro più forte alleato».
Sempre su The Guardian, Andrew Cunningham, della Zoological Society of London, sottolinea a sua volta che «L’emergere e la diffusione del COVID-19 non era solo prevedibile, ma era previsto ci sarebbe stata un’altra insorgenza virale proveniente dalla fauna selvatica che sarebbe stata una minaccia per la salute pubblica». Infatti, già nel 2007 lo studio “Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus as an Agent of Emerging and Reemerging Infection”, pubblicato su Clinical Microbiology Rewiews da un team dell’università di Hong Kong concludeva che «La presenza di un grande serbatoio di virus simili alla Sars-CoV nei pipistrelli ferro di cavallo, insieme alla cultura del consumo di mammiferi esotici nella Cina meridionale, è una bomba a orologeria».
Cunningham fa notare che, rispetto all’attuale COVID-19, «Altre malattie della fauna selvatica hanno avuto tassi di mortalità molto più elevati nelle persone, come il 50% per l’Ebola e il 60% -75% per il virus Nipah, trasmesso da pipistrelli nell’Asia meridionale. Anche se al momento potremmo non pensarci, probabilmente siamo stati un abbastanza fortunati. Quindi penso che dovremmo prenderlo come un chiaro avvertimento. È un tiro di dadi. E’ quasi sempre un comportamento umano che le provoca [le epidemie] e in futuro ce ne saranno di più, a meno che non cambiamo. I mercati dove si macellano animali selvatici vivi in ogni parte del mondo sono l’esempio più ovvio. Si ritiene che un mercato in Cina sia stato la fonte del COVID-19. Gli animali vengono trasportati su grandi distanze e vengono stipati insieme in gabbie. Sono stressati, immunodepressi ed espellono qualsiasi agente patogeno che hanno dentro di loro. Con un gran numero di persone in un mercato e in stretto contatto con i fluidi corporei di questi animali, è come avere una ciotola di miscelazione ideale per l’emergenza [della malattia]. Se si vuole uno scenario per massimizzare le possibilità di [trasmissione], non si potrebbe pensare a un modo molto migliore di farlo».
Anche per Cunningham il fatto che la Cina abbia vietato i mercati di animali selvatici è un fatto molto positivo, «Ma il divieto dovrebbe essere permanente e questo deve essere fatto a livello globale. Ci sono mercati di selvaggina in gran parte dell’Africa sub-sahariana e anche in molti altri Paesi asiatici. La facilità di viaggiare nel mondo moderno aggrava i pericoli. Al giorno d’oggi, puoi essere un giorno nella foresta pluviale dell’Africa centrale e il giorno successivo nel centro di Londra».
Lo statunitense Aaron Bernstein, dell’Harvard School of Public Health, ha detto a The Guardian che «La distruzione di luoghi naturali spinge la fauna selvatica a vivere vicino alle persone e anche i cambiamenti climatici costringono gli animali a spostarsi, questo crea un’opportunità per i patogeni di entrare in contatto con nuovi ospiti. Abbiamo avuto Sars, Mers, COVID-19, HIV. Dobbiamo vedere cosa la natura sta cercando di dirci. Dobbiamo riconoscere che stiamo giocando con il fuoco. La separazione tra politica sanitaria e ambientale è una pericolosa illusione. La nostra salute dipende interamente dal clima e dagli altri organismi con cui condividiamo il pianeta».
John Scanlon, ex segretario generale della Convention on International Trade of Endangered Species of Wild Fauna and Flora, evidenzia da parte sua che «Il commercio illegale di specie selvatiche da miliardi di dollari è un’altra parte del problema. I Paesi importatori dovrebbero creare un nuovo obbligo legale, supportato da sanzioni penali, affinché un importatore di animali selvatici provi che sono stati legalmente catturati in base alle leggi nazionali del Paese di origine. Se riusciremo ad avere una linea dura comune contro il crimine organizzato transnazionale della fauna, aprendo al contempo nuove opportunità per le comunità locali, vedremo prosperare biodiversità, ecosistemi e comunità».
Per Cunningham, «La crisi del COVIDd-19 può offrire un’opportunità di cambiamento», ma non è convinto che sarà colta: «Pensavo che le cose sarebbero cambiate dopo la Sars, che è stato un grande campanello d’allarme: il più grande impatto economico avuto da qualsiasi malattia emergente fino a quello data. Tutti erano allarmati al riguardo. Ma se ne è andata, grazie alle nostre misure di controllo. Poi c’è stato un grande sospiro di sollievo e siamo tornati al business as usual. Non possiamo tornare al business as usual».