Deforestazione, i Paesi ricchi predicano bene e razzolano male: piantano alberi in patria e pagano per abbattere le foreste pluviali
I consumatori del G7 rappresentano una minaccia crescente per le foreste tropicali
[30 Marzo 2021]
Le foreste coprono quasi un terzo della superficie terrestre. Inoltre, si stima che le foreste tropicali forniscano l’habitat a 50 – 90% di tutte le specie terrestri. Ospitano anche un numero imprecisato di agenti patogeni la cui diffusione viene favorita dalla deforestazione, il che può spiegare alcune delle epidemie zoonotiche degli ultimi anni. Ma, nonostante la loro importanza per la salute umana ed ecologica, le foreste vengono abbattute a un ritmo insostenibile.
Con l’aggravarsi dei cambiamenti climatici, negli ultimi anni, da parte dei Paesi ricchi c’è stata una crescente spinta a pagare quelli più poveri perché preservino e proteggano le foreste pluviali e altre foreste tropicali. Tuttavia, secondo il nuovo studio “Mapping the deforestation footprint of nations reveals growing threat to tropical forests”, pubblicato su Nature Ecology & Evolution da Nguyen Tien Hoang e Keiichiro Kanemoto del Research Institute for Humanity and Nature (RIHN) di Kyoto, dimostra che, dal 2001 al 2015, «Altri motivi finanziari, vale a dire il commercio internazionale, con questi stessi Paesi ricchi hanno effettivamente incoraggiato i Paesi più poveri ad aumentare i loro livelli annuali di deforestazione».
Al RIHN ricordano che «Ogni anno ha portato notizie sempre più catastrofiche sul cambiamento climatico. Le isole del Pacifico meridionale stanno scomparendo e la Siberia è in fiamme. Sono in arrivo cambiamenti radicali nelle nostre vite e nei nostri stili di vita, ma importanti per ridurre la nostra impronta ambientale globale. Uno degli sforzi che dovremo fare a causa di questo è ridurre la quantità di deforestazione».
allarmante a causa della loro preziosa terra per l’estrazione mineraria, l’agricoltura e altri prodotti.
Kanemoto spiega che «La relazione tra la deforestazione e la domanda di materie prime da parte dei Paesi ricchi era già stata stabilita. Quello che non è stato chiarito è la distribuzione spaziale della deforestazione associata al commercio di quelle merci».
Per capire la correlazione tra commercio e deforestazione, Kanemoto e Hoang hanno utilizzato big data che descrivono come «Dati ad alta risoluzione sulla perdita di foreste, una classificazione spaziale dei fattori di deforestazione e un modello dettagliato della catena di approvvigionamento globale», per preparare mappe delle impronte della deforestazione nel tempo e spazio. Questo ha permesso loro di identificare quali Paesi hanno portato alla deforestazione attraverso le richieste dei consumatori dei Paesi ricchi di prodotti come soia, cacao e legname.
Al RIHN evidenziano che «Il commercio con le maggiori economie del mondo aveva una chiara correlazione con la deforestazione, ma l’impronta dipendeva dal prodotto richiesto». La Cina ha causato una grave deforestazione nell’Asia orientale per il legname, mentre l’impronta del Giappone è stata maggiore in Africa per diversi prodotti agricoli, come vaniglia, cotone e semi di sesamo. Anche la Germania ha una grande impronta in Africa, ma a causa della sua domanda di cacao. Gli Usa, con la loro elevata domanda di diverse materie prime, hanno l’impronta più distinguibile, compresi legname dalla Cambogia, gomma dalla Liberia, frutta e noci dal Guatemala e soia e manzo dal Brasile.
Hoang. Sottolinea: «Quello che abbiamo scoperto è che le principali economie hanno diversi effetti geografici sulla deforestazione in base alla merce che consumano». E in una intervista a BBC News ha ribadito che «Le importazioni di materie prime legate alla deforestazione tropicale tendono ad aumentare, mentre il tasso di deforestazione globale dovrebbe diminuire. Ottenere guadagni forestali netti a livello nazionale ma espandere le impronte di deforestazione non interne, specialmente ai tropici, potrebbe fare più male che bene per la mitigazione del cambiamento climatico e la conservazione della biodiversità».
Degno di nota è anche il fatto che mentre molte delle principali economie hanno aumentato le loro impronte di deforestazione a livello globale, hanno visto le loro foreste aumentare a livello nazionale. Infatti, oltre il 90% della deforestazione causata da 5 dei Paesi del G7 si è verificata al di fuori dei loro confini, con la distruzione di una grande quantità di foreste tropicali. Lo studio evidenzia che «Ora, un numero crescente di alberi viene piantato nel mondo sviluppato, ma le importazioni di prodotti legati alla deforestazione minano questi sforzi. Questo commercio internazionale in crescita sta facendo più male che bene al clima e alla biodiversità». Quindi, mentre Paesi come il Regno Unito, la Germania, l’Italia, la Cina e l’India hanno tutti piantato più alberi in patria negli ultimi anni, sono tutti collegati alla crescente deforestazione al di fuori dei loro confini, in particolare nelle foreste tropicali.
Inoltre, Kanemoto e Hoang hanno stimato il numero di alberi consumati per residente di un determinato Paese, calcolando così che «Ogni persona in un paese del G7 causa una perdita media di 4 alberi nel mondo, ma i residenti in Cina e India portano solo alla perdita di uno».
Tuttavia, la perdita di alcuni alberi ha un impatto biologico maggiore rispetto ad altri: «Diversi tipi di alberi hanno ruoli ambientali ed ecologici diversi. Ad esempio, l’impatto ambientale di tre alberi amazzonici potrebbe essere più grave dell’impatto di 14 alberi nelle foreste boreali della Norvegia», dicono i due ricercatori RIHN.
Commentando lo studio, Adeline Favrel, di France Nature Environment, ha detto che «Queste cifre dimostrano che il consumo dei Paesi sviluppati e del G7 in particolare sta distruggendo le foreste del mondo, il polmone del pianeta, e la loro biodiversità. Il nostro consumo non sta distruggendo le nostre foreste, ma le foreste di altri Paesi, in particolare la foresta tropicale, che è la più ricca in termini di biodiversità. I principali responsabili sono il nostro consumo di legno, carne, olio di palma e soia».
Affrontare il problema però non è facile. Gli autori dello studio affermano che «La continua crescita economica non è la risposta. Poiché i Paesi più ricchi hanno visto le loro economie crescere drasticamente nel periodo dello studio, la loro dipendenza dalle foreste tropicali è aumentata».
Per Audrey Changoe, esperta di commercio di Friends of the Earth Europe, «I Paesi ricchi dovrebbero riconoscere il loro ruolo nella deforestazione come uno dei principali consumatori di beni forestali a rischio. I governi devono adottare misure normative per obbligare le imprese a valutare e mitigare i rischi di deforestazione. L’Ue sta ora lavorando a un quadro di responsabilità per affrontare i danni ambientali e i diritti umani da parte delle imprese. Questo deve includere la responsabilità per i danni causati dalle imprese e l’accesso ai tribunali per le vittime di violazioni dei diritti umani e crimini ambientali».
Gli autori dello studio sostengono che pagare i Paesi più poveri per i servizi ambientali ha già ridotto i tassi di deforestazione e aiutato le persone a uscire dalla povertà e chiedono un’espansione e un aumento di queste soluzioni a lungo termine: «Se i Paesi ricchi vogliono che i Paesi più poveri proteggano le loro foreste, devono incentivare la sostenibilità».
Kanemoto conclude: «La maggior parte delle foreste si trova nei Paesi più poveri che sono sopraffatti dagli incentivi economici per abbatterle. I nostri risultati mostrano che i Paesi più ricchi stanno incoraggiando la deforestazione attraverso la domanda di materie prime. Le politiche che mirano a preservare le foreste devono anche alleviare la povertà. Con la pandemia del coronavirus, la disoccupazione pone maggiori sfide alla conservazione delle foreste nei Paesi in via di sviluppo. Vogliamo che i nostri dati aiutino nella definizione delle politiche».