È la disuguaglianza di reddito a guidare il commercio mondiale di fauna selvatica
L’Italia terzo importatore al mondo di fauna selvatica. In 20 anni, in 226 Paesi sono stati commerciati più di 420 milioni di animali selvatici
[6 Maggio 2021]
Il commercio internazionale di animali e piante è una delle maggiori minacce per le specie in via di estinzione e lo studio dimostra che il commercio di animali selvatici avviene per lo più dai Paesi a basso reddito verso i Paesi ricchi e sviluppati. Ad esempio, le rane selvatiche vengono scambiate tra il Madagascar e gli Stati Uniti e il pesci vengono spostati dalla Thailandia a Hong Kong.
Secondo Traffic, dal 2006 al 2015, 1,3 milioni di animali e piante vivi, 1,5 milioni di pelli e 2.000 tonnellate di carne di selvaggina, sono stati legalmente esportati dall’Africa nella sola AsiaIl commercio transfrontaliero di piante e animali selvatici è regolato dalla Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora (Cites), istituita per ridurre la domanda di fauna selvatica minacciata di estinzione e per consentire alle popolazioni di animali e piante di riprendersi. In base alla Cites, i Paesi membri devono imporre restrizioni commerciali al loro interno, ma in molti fanno notare che la Cites ha poteri limitati per contrastare le leggi nazionali inadeguate.
Il nuovo studio “International socioeconomic inequality drives trade patterns in the global wildlife market”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori di Hong Kong e Singapore, rivela che è la disuguaglianza di reddito il vero driver del commercio mondiale di fauna selvatica – spesso protetta – e suggerisce che «I Paesi ad alto reddito dovrebbero pagare quelli più poveri per preservare la fauna selvatica».
Lo studio ha rilevato che tra il 1998 e il 2018 la rete commerciale globale era più estesa tra le coppie di nazioni con maggiori divari di ricchezza: i maggiori esportatori di prodotti di fauna selvatica sono stati Indonesia, Jamaica e Honduras, mentre gli Stati Uniti sono stati il più grande importatore con, molto lontane, la Francia al secondo posto e l’Italia al terzo.
I ricercatori sostengono che «La mancanza di incentivi socioeconomici negli attuali accordi multinazionali potrebbe limitare il potenziale di repressione del commercio dannoso».
Il principale autore dello studio, Jia Huan Liew dell’università di Hong Kong, ha spuegato a BBC News che «I Paesi che forniscono la maggior parte dei prodotti della fauna selvatica dovrebbero ricevere incentivi finanziari per ridurre il commercio in un determinato periodo di tempo. Alla fine di questo periodo, se l’obiettivo sarà stato raggiunto, il Paese esportatore riceverà una somma pre-concordata. I finanziamenti sarebbero idealmente prelevati dai Paesi ricchi, dato il loro impegno per gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite e il fatto che svolgono un ruolo sproporzionatamente importante nel mercato globale della fauna selvatica».
I ricercatori ritengono che, a causa di una serie di fattori, tra i quali i divieti sul consumo di fauna selvatica in Cina, la pandemia di Covid-19 potrebbe portare a un declino del commercio internazionale di fauna selvatica e questo potrebbe essere la base per un cambiamento.
Liew conclude: «Per evitare di tornare al business as usual, dovremmo approfittare della consapevolezza dell’opinione pubblica sulle possibili conseguenze del consumo di prodotti della fauna selvatica per ridurre la domanda e rendere permanente il divieto cinese del consumo di fauna selvatica».