Guerra e fauna selvatica: ne uccide più il collasso istituzionale che i fucili e le bombe
In 60 anni, conflitti armati in più di due terzi degli hot spots mondiali della biodiversità
[5 Dicembre 2016]
Secondo lo studio “War and wildlife: linking armed conflict to conservation”, pubblicato su Frontiers in Ecology and the Environment, «In tutti gli hotspots della biodiversità del mondo, i conflitti armati rappresentano una minaccia fondamentale per gli sforzi di conservazione. Fino ad oggi, la ricerca e la politica si sono concentrate più sui risultati finali del conflitto per la fauna selvatica, piuttosto che sui processi ecologici, sociali ed economici che creano tali risultati. Eppure la militarizzazione che accompagna i conflitti armati, nonché i conseguenti cambiamenti nella governance, nelle economie e nell’insediamento umano, ha influenze diverse sulle popolazioni della fauna selvatica e gli habitat».
Per meglio comprendere queste dinamiche complesse, un team di ricercatori statunitensi dell’università della California-Berkley (Ucb), dell’Atkinson Center for a Sustainable Future della Cornell University e il canadese Gillan Gregory del department of geography della McGill University, ha riassunto 144 casi di studio di tutto il mondo e identificato 24 distinti percorsi che collegano un conflitto armato agli impatti sula fauna selvatica. Ne è venuto fuori che «Nelle zone in conflitto, i killer più comuni degli animali selvatici non sono i fucili e le bombe, ma i danni alle istituzioni, alle società e alle economie».
I ricercatori dell’ UC Berkeley spiegano che «Lo sconvolgimento sociale durante un conflitto armato porta a modelli insostenibili di uso delle risorse naturali che possono avere una lunga eredità», per questo gli autori dello studio invitano biologi, scienziati sociali e le organizzazioni che si occupano di sviluppo a unire le forze per «capire meglio i complessi esiti delle guerre per le popolazioni animali e gli habitat».
La principale autrice dello studio, del Department of environmental science, policy and management dell’UC Berkeley, evidenzia che «I biologi conservazionisti danno spesso per scontato che la guerra sia un male per gli animali, con poca comprensione del contesto e dei processi coinvolti. Una semplificazione che non guarda alla complessità sia della guerra che della conservazione. La comprensione dei percorsi che legano il conflitto ai risultati ambientali è fondamentale per lo sviluppo di strategie di mitigazione efficaci».
Negli ultimi 60 anni, conflitti armati, che vanno dalle grandi guerre alle rivolte di milizie, sono avvenuti in più di due terzi degli hot spots della biodiversità di tutto il mondo. «Questi conflitti sono una sfida importante per la fauna selvatica che non viene affrontata dalle strategie di conservazione tradizionali – dicono i ricercatori – I conflitti armati sono spesso prolungati, creando cambiamenti ambientali duraturi. Il 70% dei conflitti attivi in corso è iniziato prima del 2000. Il conflitto armato può influenzare la fauna selvatica in un certo numero di modi, anche attraverso le operazioni militari tattiche, lo spostamento di persone e l’interruzione dei sistemi di approvvigionamento alimentare».
Gli scienziati americani e canadesi hanno esaminato casi di studio sui conflitti di tutto il mondo, e hanno sviluppato un quadro nuovo per la comprensione 24 percorsi distinti che legano i conflitti all’ambiente e dicono che «10 percorsi provocano direttamente la morte di animali o cambiamenti di habitat. Gli altri 14 percorsi colpiscono indirettamente la fauna, creando le circostanze che hanno reso più facile o più redditizia l’uccisione della fauna selvatica, la distruzione degli habitat o la loro conservazione. Alcune delle cause dirette più comuni del declino della fauna selvatica sono le mine, le bombe e i prodotti chimici, la distruzione dell’habitat per ottenere vantaggi sul campo di battaglia e l’utilizzo degli animali selvatici come fonte di cibo per i combattenti o gli sfollati».
Ma il link più comune tra conflitto armato e diminuzione della fauna selvatica è l’indebolimento istituzionale dello Stato, citato in circa la metà dei casi di studio. Nell’Okapi Reserve della Repubblica democratica del Congo, le guardie del parco sono state costrette ad abbandonare le loro postazioni dopo gli attacchi di milizie armate e non sono stati in grado di prevenire il bracconaggio. Altri percorsi indiretti includono il declino delle attività di salvaguardia e di ricerca e l’apertura di nuove rotte commerciali per i prodotti della fauna selvatica.
In alcuni casi, i ricercatori hanno trovato di un effetto positivo della guerra sulla fauna selvatica, in particolare con l’effetto rifugio che si verifica quando le persone fuggono dalle zone di guerra. Un esempio ben noto è quello della zona demilitarizzata spopolata tra le Corea del Nord e quella del Sud, dove dal 1953 vive una fiorente popolazione di fauna selvatica. Altri risultati positivi sono la creazione di nuovi habitat come sottoprodotto delle tattiche di guerra e della confisca delle armi da caccia.
Complessivamente, lo studio cita 18 negative pathways , citati molto più spesso rispetto ai 6 positive pathways, ad eccezione dell’effetto rifugio. All’UC-Berkley aggiungono che «Il 90% dei casi di studio citato almeno un percorso che porta a risultati negativi per la fauna selvatica, mentre solo il 33% ha citato un percorso positivo». Gli autori sollecitano chi si occupa di salvaguardia delle specie e degli habitat ad «Adottare una prospettiva ampia sulle conseguenze del conflitto armato, dato che i risultati positivi in un unico luogo e tempo coincidono spesso con esiti negativi altrove».
Nelle zone di guerra la ricerca biologica non è certo una priorità, sia per le minacce per la sicurezza personale dei ricercatori che per la mancanza di sostegno finanziario e istituzionale, ma gli autori dello studio sostengono che «L’identificazione dei pathways e delle loro interazioni è un primo passo fondamentale nel mitigare il danno ambientale» e suggeriscono che «Le organizzazioni di conservazione puntino ai pathways che sono più fattibili secondo le loro competenze, pur sostenendo le altre organizzazioni nel mitigare i relativi percosi. Molti dei pathways associati alla militarizzazione possono essere affrontati realisticamente solo attraverso il disarmo e il risanamento ambientale del dopoguerra. Tuttavia, esistono le opportunità per ridurre gli impatti negativi della guerra sulla fauna selvatica, rafforzando le istituzioni che gestiscono l’ambiente, prima e durante il conflitto».
Lauren Withey, del Department of environmental science, policy and management dell’UC-Berkeley, conclude: «La conservazione della fauna selvatica è comprensibilmente una bassa priorità per coloro che sono nel bel mezzo di un conflitto. Tuttavia, data l’importanza della fauna selvatica per i mezzi di sussistenza rurali, la sicurezza alimentare e le economie nazionali, i biologi della conservazione e professionisti dello sviluppo che lavorano per mitigare gli effetti del conflitto stanno facendo un investimento importante e non solo per la biodiversità, ma anche per la stabilità a lungo termine della regione e per il benessere delle persone».