Le aree marine protette sotto la lente
[17 Febbraio 2014]
Un recente studio sulle aree marine protette europee e internazionali ha fornito anche alcuni dati e riflessioni critiche sulla condizione di quelle italiane, che confermano vecchi e nuovi problemi sui quali sarebbe bene soffermarci un po’ meno sbrigativamente di come è accaduto, anche con le tre proposte di legge in discussione al Senato.
E’ bene ricordare che le aree marine protette – le riserve – in Italia hanno preceduto l’uscita della legge 394 del 1991 con la legge sul mare 979. Legge che peraltro non le prevedeva nella sua prima versione ma solo nella seconda, che seguì dopo un lungo stop al Senato. La legge riguardava le competenze del ministero della Marina mercantile sul mare e le coste, di cui l’allora ministro Mannino difese a spada tratta il massimo di competenza centralistica. La gestione faceva capo al ministero e non era affidata ad un organismo istituzionale che avrebbe fatto la sua comparsa solo con la legge 394, sia per i parchi nazionali che per quelli regionali.
Il trasbordo non risultò facile neppure dopo la scomparsa del ministero della marina mercantile e il passaggio delle riserve marine al ministero dell’ambiente. Risultò anzi problematico e controverso sull’esigenza di integrare alle nuove aree protette terrestri quelle marine, a partire da realtà storiche come quella di Portofino dove si accampò pretestuosamente l’argomento che il raccordo era possibile e previsto solo con i parchi nazionali ma non con quelli regionali. Ronchi docet! La pronuncia in sede costituzionale liquidò questa interpretazione di comodo della legge, ma le cose non cambiarono e di fatto nella sostanza non sono cambiate neppure oggi. E non solo per i parchi regionali; felice e tardiva eccezione la riserva della Meloria, affidata recentemente in gestione al parco di San Rossore. E non è cambiata neppure per i parchi nazionali, se è vero che l’Arcipelago Toscano manca ancora di una propria perimetrazione a mare.
Del resto basta guardare alla condizione del Santuario dei cetacei – l’unica area protetta internazionale – della cui gestione nessuno da tempo sa nulla. E a poco sono servite anche le sollecitazioni e gli input comunitari per quella integrazione tra tutte le aree protette marino-costiere per evitare una frammentazione resa ancor più ingestibile, se in ambiti contigui si deve agire sulla base di norme nazionali o comunitarie.
Ma dove si è toccato davvero il fondo, anche del grottesco, è con la proposta D’Ali di modifica della legge 394, che fu motivata con l’esigenza di rilanciare innanzitutto il ruolo delle aree marine protette. La proposta per prima cosa cancellava infatti qualsiasi competenza regionale sui ‘brevi tratti di costa’, come dice la legge 394. Insomma, per rilanciare le aree marine protette bisognava affidare tutto -proprio tutto – al ministero. Tanto che anche i parchi nazionali che operano tanto a terra tanto a mare per la parte marina contavano quanto il due di briscola. Le due proposte di legge aggiuntesi successivamente a quella di D’Alì sguazzano nello stesso pantano.
Venendo ai guai denunciati dallo studio da cui abbiamo preso le mosse emergono che le superfici protette anche sul piano internazionale sono quanto mai modeste, e ciò nonostante mal gestite per aspetti decisivi, tipo la pesca (ma non solo).
Emerge insomma in maniera ancor più chiara e netta quello che purtroppo troviamo anche nella gran parte dei nostri parchi, soprattutto nazionali, ossia il venir meno dei piani o comunque di gestioni affidate a progetti seri. A ciò ha ovviamente concorso il taglio delle risorse, ma questa non era e non è la sola causa e spesso neppure quella principale.
Per rilanciare le aree marine protette al pari di tutte le altre bisogna ripartire quindi da una politica nazionale che sappia coinvolgere anche le regioni e gli enti locali, come risulta non solo dell’incontro nazionale di dicembre alla Sapienza a Roma ma anche dal più recente documento delle regioni sulle leggi in discussione al Senato: si sono finalmente accorte che le stanno fregando.
E tuttavia resta una responsabilità ministeriale che va al di là del mancato coinvolgimento dei vari soggetti interessati, perché questa pretesa di esclusività ne accresce le colpe per un uso non solo quantitativo delle risorse sempre più irrilevante ma anche sempre più tardivo, che risulta paralizzante per le aree protette.
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