Basta gare e addestramento cani nelle aree protette abruzzesi, bocciata la modifica alla legge regionale
La Sentenza della Corte Costituzionale: violate normative nazionali ed europee
[18 Aprile 2017]
Accogliendo un ricorso del Consiglio dei ministri, la Corte Costituzionale ha bocciato l’articolo 4 della legge della Regione Abruzzo 13 aprile 2016, n. 11 (Modifiche alle leggi regionali 25/2011, 5/2015, 38/1996 e 9/2011) che consentiva lo svolgimento di attività cinofile e cinotecniche nei parchi naturali regionali e non inferiore al 30% di quella delle riserve naturali regionali guidate, controllate e speciali.
Nel giugno 2016, il governo aveva promosso una questione di legittimità costituzionale sull’articolo 4, che modificava il comma 6 dell’art. 8, aggiungendo il comma 2-bis all’art. 9, modificando il comma 3 dell’art. 19, della legge-quadro sulle aree protette della Regione Abruzzo per l’Appennino Parco d’Europa, che «al fine di favorire lo sviluppo sostenibile delle aree interne attraverso l’incremento del turismo cinofilo», autorizzava le attività cinofile e cinotecniche, per almeno 8 mesi l’anno, su aree non inferiori al 50% per cento delle zone B, C e D dei parchi naturali regionali e su aree non inferiori al 30% di quelle delle riserve regionali naturali guidate, controllate e speciali; inoltre, nelle more dell’adeguamento alle nuove disposizioni dei regolamenti o dei piani dei parchi naturali regionali ovvero del piano di assetto naturalistico, le predette attività sono consentite per l’intero anno su tutte le aree ricadenti nelle zone B, C e D dei parchi naturali regionali e sull’intera superficie della riserva naturale regionale.
Secondo il governo, «l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività cinofila sarebbe in contrasto sia con i vincoli posti dalla legislazione nazionale per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, e conseguentemente con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sia con gli obblighi assunti dall’Italia sul piano internazionale e comunitario, violando l’art. 117, primo comma, Cost., poiché la presenza dei cani nei parchi e nelle riserve naturali arrecherebbe disturbo ad alcune specie animali protette (quali il lupo, l’orso bruno marsicano ed il camoscio appenninico), che in tali aree hanno il proprio habitat naturale. Quanto agli obblighi comunitari, verrebbero in rilievo gli artt. 2 e 12 della direttiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992, e l’art. 8, comma 1, lettera b), del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), che impongono il mantenimento o il ripristino degli habitat naturali, della fauna e della flora selvatiche di interesse comunitario; prescrivono la tutela di alcune specie animali, elencate nell’allegato IV, lettera a), della citata direttiva, tra le quali figurano il lupo, l’orso bruno marsicano ed il camoscio appenninico; e vietano di perturbare le specie protette, segnatamente durante il periodo riproduttivo».
La Regione Abruzzo sosteneva la legittimità della norma impugnata, «in quanto essa esclude dall’esercizio dell’attività cinofila le zone A dei parchi regionali, ovvero quelle di eccezionale valore naturalistico, nonché le riserve naturali integrali ed i parchi nazionali. In ogni caso, poiché, all’interno delle aree protette, l’attività cinofila è consentita solo per una quota parte del territorio (50% del parco e 30% della riserva), è limitata ad un periodo temporale circoscritto (otto mesi l’anno), senza riferimento, esclusivo o prevalente, all’allevamento o addestramento dei cani da caccia, e la sua regolamentazione è demandata agli enti parco e ai soggetti gestori delle riserve regionali, la normativa impugnata sarebbe rispettosa dei livelli di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema».
La Regione faceva presente anche l’esistenza di altre leggi regionali, contenenti previsioni analoghe a quelle di cui all’art. 4 della legge reg. Abruzzo n. 11 del 2016, che non sono state oggetto di impugnativa da parte dello Stato». E, pur essendo «consapevole del rigoroso indirizzo espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 44 del 2011, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione regionale che consentiva lo svolgimento di attività cinofile in aree protette», riteneva che tale decisione potrebbe eventualmente determinare la caducazione della sola norma transitoria prevista dall’art. 4 della legge reg. Abruzzo n. 11 del 2016, poiché essa autorizza le attività contestate senza alcuna limitazione. Infine, con riferimento all’allevamento e addestramento dei cani nelle zone speciali di conservazione e nelle zone di protezione speciale, la difesa regionale ritiene che la valutazione di incidenza di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997 non possa essere applicata alle prime, poiché essa non è prevista espressamente dal decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007, recante «Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)».
Nella sua sentenza, dopo aver ripercorso caratteristiche e vincoli della zonazione delle Aree protette e ricordato che «l’attività cinofila è autorizzata dall’art. 4 della legge reg. Abruzzo n. 11 del 2016 in tutte le aree protette regionali, con esclusione della sola riserva naturale integrale di eccezionale valore naturalistico», sottolinea che «La disciplina regionale impugnata è stata introdotta al dichiarato fine di incrementare il turismo cinofilo, pertanto essa potrebbe, in ipotesi, essere considerata espressione dell’esercizio di competenza legislativa regionale residuale nella materia del turismo, ma l’allevamento e l’addestramento dei cani, svolgendosi all’interno di aree protette, è idoneo ad incidere sulla materia ambientale e, in particolare, sulla tutela dell’ecosistema e su tutto ciò che riguarda la tutela della conservazione della natura come valore in sé, a prescindere dall’habitat degli esseri umani (sentenza n. 12 del 2009). La normativa regionale deve garantire il rispetto dei livelli minimi uniformi posti dal legislatore nazionale in materia ambientale».
Infatti, la Corte, ha più volte ribadito che «L’ambiente è una “materia traversale” poiché sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell’ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni […]. In questi casi, la disciplina unitaria di tutela del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materia di competenza propria, che riguardano l’utilizzazione dell’ambiente, e, quindi, altri interessi» (sentenza n. 104 del 2008, con richiamo a sentenza n. 378 del 2007). L’esercizio della competenza legislativa regionale nelle materie di propria competenza, dunque, trova un limite nella disciplina statale della tutela ambientale, salva la facoltà delle Regioni di prescrivere livelli di tutela ambientale più elevati di quelli previsti dallo Stato. In materia di aree protette, lo standard minimo uniforme di tutela nazionale si articola nella previsione di strumenti regolatori delle attività esercitabili al loro interno e di esclusione dell’esercizio dell’attività venatoria. Invero, l’art. 21 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), vieta l’esercizio venatorio nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali».
Quindi, secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale, «l’addestramento dei cani va ricondotto alla materia della caccia, in quanto strumentale all’esercizio venatorio (sentenza n. 350 del 1991 e, più di recente, sentenza n. 303 del 2013), ed è sottoposto alla medesima disciplina. Pertanto, la possibilità del suo svolgimento all’interno delle aree regionali protette – determinata dal fatto che l’art. 4 della legge reg. Abruzzo n. 11 del 2016 non ha escluso, dalle attività cinofile autorizzate, quelle riferite ai cani da caccia – viola il divieto previsto dall’art. 21 della legge n. 157 del 1992 e incide sulla tutela minima garantita dalla normativa nazionale di protezione della fauna. Più in generale, l’invasione della sfera di competenza legislativa dello Stato in materia ambientale, rileva in riferimento alla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette); in base ad essa (art. 1), costituiscono aree protette tutti quei territori ove sono presenti “formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale” e che sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e protezione, volto ad assicurare la conservazione del patrimonio naturale del paese e la conservazione delle specie animali». La sentenza evidenzia che «La predetta legge quadro nazionale classifica le aree naturali protette in parchi e riserve naturali e, in relazione alla dimensione locale degli interessi naturalistici, attribuisce alle Regioni la competenza per l’istituzione e la classificazione dei parchi e delle riserve regionali. L’art. 11 della medesima legge prevede che la disciplina delle attività consentite all’interno dell’area del parco sia posta mediante regolamento, adottato dall’ente parco, nel rispetto di alcuni divieti tra cui, ai fini che qui interessano, rileva quello di cui al comma 3, lettera a), dell’art. 11, che impone di non danneggiare e disturbare le specie animali. Il rispetto di tale divieto si impone anche per i parchi regionali, in forza della previsione dell’art. 22 della legge quadro n. 394 del 1991 che, nell’individuare i principi fondamentali a cui la disciplina delle aree naturali protette regionali deve attenersi, vi include l’adozione di regolamenti delle aree protette “secondo criteri stabiliti con legge regionale in conformità ai princìpi di cui all’articolo 11” (art. 22, comma 1, lettera d). Il divieto di disturbo delle specie animali integra, dunque, uno standard minimo di tutela ambientale, derogabile solo mediante il meccanismo previsto dall’art. 11, ovvero previa valutazione da parte dell’Ente parco, soggetto preposto alla salvaguardia dell’area protetta, in quanto tecnicamente competente».
Per questo, «La presenza sistemica di animali estranei all’habitat locale, autorizzata direttamente con la legge reg. Abruzzo n. 11 del 2016, a prescindere dalla valutazione dell’Ente parco, integra la violazione del divieto e determina il paventato disturbo dell’ecosistema e della fauna, incidendo sui livelli minimi di tutela ambientale stabiliti dal legislatore nazionale».
Già con la sentenza n. 44 del 2011, la Corte Costituzionale aveva stabilito che «la previsione legislativa regionale diretta allo svolgimento di attività che estrinsecandosi nell’addestramento di cani, non solo da caccia, ed in prove zootecniche, vanno a interagire con l’habitat naturale, non appare rispettosa dei livelli di tutela dell’ambiente, contenuti nella normativa statale» ed aveva ritenuto «illegittima la previsione che contemplava l’istituzione, da parte di Comuni compresi nel territorio dei parchi, con la cooperazione solo eventuale degli organi del parco, di aree cinofile adibite all’addestramento ed allenamento dei cani».
In particolare, la stessa sentenza n. 44 del 2011 aveva chiarito che «lo svolgimento di attività che pur riconducibili alle esigenze di sviluppo economico del territorio, determinano, secondo la previsione della legge impugnata, un particolare afflusso di persone e di animali nel territorio del parco, va rimesso alla regolamentazione tecnica dell’ente preposto all’area protetta (sentenza n. 108 del 2005)».
Per questo la Corte Costituzionale ha sentenziato che «Il vizio di illegittimità costituzionale della legge reg. Abruzzo n. 11 del 2016 non può essere superato dalla delimitazione temporale e spaziale delle attività, che sono autorizzate per otto mesi l’anno e su una quota parte dell’area protetta. In primo luogo, l’argomento non è spendibile per la disposizione transitoria, che non contempla tali limitazioni. In ogni caso, va considerato che il legislatore statale non distingue, all’interno delle aree protette, sottozone in relazione alla specifica attività esercitabile, ma prescrive un indistinto sistema di protezione, quale livello minimo di tutela ambientale, in cui è incluso il divieto di disturbo delle specie animali in tutta l’area, derogabile soltanto a seguito della valutazione dell’ente parco. Peraltro, tale divieto di disturbo, in riferimento ad alcuni animali protetti che popolano i parchi abruzzesi, quali il lupo, l’orso bruno e il camoscio, trova puntuale corrispondenza, senza possibilità di deroghe, nell’art. 8 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche). La presenza, autorizzata con legge, di cani, estranei all’habitat tutelato, all’interno dei parchi e delle riserve regionali è, dunque, ad un tempo lesiva degli obblighi comunitari e dei livelli minimi di tutela ambientale prescritti dal legislatore nazionale e contrasta, quindi, con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost.»
Per questi motivi, la Corte Costituzionale «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Abruzzo 13 aprile 2016, n. 11 (Modifiche alle leggi regionali 25/2011, 5/2015, 38/1996 e 9/2011)».