Riceviamo e pubblichiamo
Per difendere i parchi italiani occorre innovarne la missione e la governance
[30 Dicembre 2015]
Occorre riaccendere il dibattito sullo stato di salute dei parchi e conseguentemente sulle politiche che sarebbero necessarie per la salvaguardia della biodiversità nel nostro paese. La salvaguardia della biodiversità, questo è il punto focale. I parchi sono infatti solo uno degli strumenti, non l’unico e forse neppure il più importante, per conservare gli ecosistemi naturali ed i servizi che essi rendono all’umanità. Non sono il fine della conservazione.
Riconoscere la parzialità della funzione dei parchi non vuole dire sminuirne l’importanza in termini di conservazione, semmai vuol dire collocarli in una prospettiva più appropriata, evitando così di considerarli strumenti salvifici e mitizzare il ruolo di chi li dirige e/o li presiede.
Vorrei fare in proposito alcune riflessioni che si legano al dibattito in corso sull’opportunità o meno di cambiare la legge quadro nazionale sulle aree protette. Con la legge 394/91 si è raggiunta una mediazione alta e intelligente tra visioni politiche diverse circa il rapporto tra i parchi ed il loro contesto, o meglio, tra la specialità della tutela attraverso questo istituto e gli strumenti ordinari di governo del territorio, in capo alle comunità locali ed alle regioni.
Il compromesso raggiunto nel 1991,sostanzialmente tra la DC e il PCI con il contributo decisivo dei Verdi , è avvenuto all’interno di una stagione fervida di riforme innovative sul piano della gestione delle risorse naturali (è di quel periodo la legge sulla difesa del suolo e quella sulla gestione faunistico-venatoria).
La legge ha costituito il punto di equilibrio tra le posizioni più centralistiche e quelle più regionalistiche, forse troppo radicali, che chiedevano di considerare i parchi nazionali territori dotati di una propria specialità normativa ma non separandone la gestione dai loro contesti culturali, economici e istituzionali.
Nei fatti si può dire senza ombra di smentite che la legge ha raggiunto il proprio scopo principale ; quello cioè di favorire la nascita di nuovi parchi (soprattutto nazionali) e di nuove aree marine protette. Per questo si può affermare che la 394 ha funzionato bene.
Sicuramente, nel corso degli anni, più che inapplicata essa è stata menomata in alcune delle sue parti più innovative, soprattutto attraverso il varo della così detta riforma Bassanini del 1997. Fondata sul principio di leale cooperazione istituzionale tra tutti i livelli dello Stato, la legge 394 aveva dato vita a due strumenti molto importanti che andavano in quella direzione: il comitato paritetico stato-regioni e il programma nazionale delle aree protette, introducendo in questo modo, oltre alla logica della collaborazione paritaria tra Stato-Regioni ed Enti Locali, anche la prospettiva del “sistema nazionale delle aree protette”.
Questi due strumenti sono stati purtroppo cancellati da un provvedimento, appunto la riforma del Titolo V della Costituzione, frutto di un regionalismo bislacco e della rincorsa spasmodica delle posizioni della Lega.
Questa è stata e resta la menomazione più grave apportata alla 394 ed ha impedito che si procedesse, o si tentasse di procedere, lungo la strada della costruzione della così detta rete ecologica nazionale; il principale strumento di difesa e di rafforzamento della biodiversità di cui ha bisogno un paese come il nostro caratterizzato da una grande varietà di ecosistemi naturali in gran parte di modeste dimensioni .
I parchi quando sono isolati, anche quelli meglio gestiti, non raggiungono quasi mai dei significativi risultati nella conservazione di habitat e specie se non sono inseriti all’interno di una rete ecologica e se non sono guidati da una strategia , almeno nazionale, per la conservazione della biodiversità.
In altre parole , la tutela svolta dai parchi per essere efficace ha bisogno che essi siano collegati tra loro da idonei corridoi ecologici che possono permettere le dinamiche dei sistemi naturali più rari e minacciati.
A mio parere da alcune parti nel dibattito odierno che ruota intorno alle vicende dei parchi si continua a dare troppo peso al ruolo dei presidenti e dei direttori. Personalmente credo che, come in tutte le cose, siano importanti le persone e anche le elite che guidano i processi, ma la forza dei cambiamenti durevoli ed il loro successo sta innanzitutto nella bontà del progetto, nel consenso che esso riesce a suscitare, in primo luogo da parte di chi nei parchi vive e lavora e nella qualità/quantità dei risultati che si riesce a conseguire nel lungo periodo.
Ricordiamoci inoltre che in anni recenti in alcuni parchi nazionali , segnatamente il parco d’Abruzzo e quello delle Cinque Terre (ritenuti in molti ambienti due icone della conservazione ) , si sono purtroppo verificate gravi irregolarità gestionali perseguite dalla Magistratura a carico di direttore e presidente ; irregolarità che non hanno fatto sicuramente bene all’immagine complessiva del sistema dei parchi italiani.
Due parchi, quello d’Abruzzo e le Cinque Terre, che nel recente passato sono stati presentati da più parti come modelli di buona gestione e come tali da seguire. Attenzione quindi alle mitizzazioni. Insomma, per i parchi io propendo per una gestione repubblicana e non monarchica ; per una gestione finalizzata ad un progetto e guidata dall’intuizione di un pur bravo direttore o di un presidente illuminato.
Quello che serve ai parchi italiani è una politica ed una strategia nazionale per la conservazione della biodiversità. Quella approvata in fretta nel 2010 dalla conferenza stato-regioni è invece solo un elenco di buone intenzioni senza la specificazione dei risultati da raggiungere .
Una strategia, per essere efficace, deve partire invece da un quadro conoscitivo preciso sullo stato della biodiversità ( che a distanza di 25 anni dalla legge 394 ancora non c’è) , definire le priorità e gli obiettivi da raggiungere ,dotandosi di specifici indicatori di risultato (temporalizzati e quantificati), individuare le risorse necessarie e le responsabilità dei diversi attori , istituzionali e non , che sono chiamati a realizzarla.
Ed è in questo quadro di pianificazione strategia che ad ogni parco , sia nazionale che regionale, deve essere attribuito un compito preciso (quali habitat e specie deve tutelare prioritariamente e con quali risultati in un tempo definito) ; una sorta di missione di scopo sulla base della quale deve essere valutata la propria performance .
Non credo che i presidenti dei parchi debbano sempre connotarsi esclusivamente per essere dotati di un ottimo curriculum scientifico ma debbano possedere l’esperienza e la capacità per sapersi misurare con i contesti di riferimento ed essere dotati di buone doti persuasive e di idee innovative, così come i direttori, che invece di assurgere al ruolo di soprintendenti ministeriali (decidendo da soli cosa è meglio fare) debbono invece perseguire gli obiettivi che gli organismi preposti, il consiglio del parco e la comunità del parco, definiscono attraverso la partecipazione vera dei portatori di interesse (scientifici, culturali, economici ecc.)
E’ indubbio che senza la buona politica non ci può essere una buona conservazione della biodiversità. Non ci possono essere bravi presidenti e direttori se non ci sono buoni amministratori locali, regionali e nazionali. La nomina del direttore di un parco nazionale operata da un cattivo ministro non può essere migliore di quella operata da un buon consiglio direttivo.
Non basta che le nomine siano fatte da istituzioni più distanti possibile dal territorio dove insiste il parco per avere la garanzia della loro qualità perché se cosi fosse dovremmo chiedere che le nomine dei direttori e dei presidenti dei parchi siano fatte direttamente dall’ONU.
E’ vero che le difficoltà dei parchi derivano in gran parte dalla crisi della politica , ma non per questo dobbiamo suonare le campane a morto. Non credo poi che la soluzione consista nel tentare di risuscitare quel movimento di opinione che contraddistinse la fase più fervida dell’ambientalismo italiano degli anni 80 che seppe interpretare l’ esigenza di una società in grande crescita culturale e soprattutto che voleva mettere l’Italia al passo con gli altri paesi occidentali anche per quanto riguarda la propria natura più preziosa.
Oggi i cittadini sanno che l’obiettivo di istituire i Parchi è stato raggiunto ed è difficile, se non impossibile , mobilitarli per difendere i parchi e metterli in grado di svolgere al meglio la loro missione. Essi si aspettano , giustamente, che adesso siano le istituzioni a farli funzionare.
Finisco su alcune critiche pubblicate anche recentemente su alcuni giornali on line (ultimo l’intervento del prof. Piccioni pubblicato da Eddyburg dello scorso 14 dicembre), rivolte ai contenuti della proposta di modifica della legge 394 e a Federparchi. Non mi pare che si possa affermare con tanta leggerezza che Federparchi non stia operando a favore dei parchi come, di fatto, si afferma nell’intervento che ho citato prima.
Credo sia un fatto positivo e non un difetto, del progetto di legge di riforma la previsione di affidare a Federparchi il compito di contribuire a sviluppare a fianco del Ministero il sistema delle aree protette, così come da decenni fa e con ottimi risultati il ministero francese con la sua Federazione dei parchi.
Io, a differenza dei critici di cui parlavo prima, mi aspetterei dalla nuova legge un maggiore sforzo di innovazione perché i principi della 394 non possono essere messi in discussione e non mi pare che il Pdl in discussione al Senato lo faccia.
Credo invece che la modifica della 394 debba guardare di più alle strategie mondiali e comunitaria per la conservazione della biodiversità, per arrestarne la perdita da qui al 2020 e fare quindi propri quegli obiettivi e debba collegarsi maggiormente ai principi ed agli obiettivi della direttiva Habitat ; una direttiva che è stata varata appena dopo l’approvazione della legge quadro e alla quale i parchi debbono riferirsi maggiormente nella gestione della biodiversità.
Infine la revisione della 394 dovrebbe sviluppare e mettere con i piedi per terra quanto ha previsto la recentissima legge, il cosiddetto “collegato ambientale”, che ha introdotto sul piano legislativo il concetto di “servizi ecosistemici” e la regolazione del loro pagamento, per farne il perno dell’autofinanziamento dei parchi e allo stesso tempo il parametro di riferimento principale per misurare la loro capacità di iniziativa, di tutela e di messa in valore delle risorse naturali che essi conservano.
Il progetto di legge di riforma della 394 contiene anche molti aspetti positivi. Innanzitutto riaccende l’interesse delle istituzioni verso i parchi. Un interesse che si è sicuramente affievolito non solo perché la politica è disattenta alla conservazione della biodiversità , ma anche perché in molti casi la gestione dei parchi non è sempre stata all’altezza delle aspettative. Il progetto di riforma prevede poi il ripristino del programma triennale nazionale per le aree protette , sia nazionali che regionali. Accentua inoltre il ruolo delle comunità locali nel governo dei parchi nazionali e apre al coinvolgimento diretto degli agricoltori; una categoria che nei parchi ha diritto ad avere più voce perché gli agricoltori sono, allo stesso tempo, proprietari dei terreni su cui insistono i parchi , abitanti dell’area protetta e quelli che più di altri utilizzano il territorio e le sue risorse.
Del resto la legge 394 ha ben 24 anni e dalla sua approvazione ad oggi sono cambiate molte cose: il quadro istituzionale , l’affezione dei cittadini verso i parchi, i nuovi paradigmi mondiali nel campo della conservazione, la consapevolezza dei rischi indotti dai cambiamenti climatici e dalla perdita della biodiversità.
Perché dovremmo avere paura di innovarla? La legge quadro ha ottenuto grandi risultati che oggi richiedono però di essere ulteriormente sviluppati per non fare ripiegare i parchi su se stessi. In definitiva penso che lo spirito ed i principi della 394 si difendono meglio aggiornando alcuni dei suoi contenuti anziché arroccarsi e chiudersi alle innovazioni.
di Enzo Valbonesi, già presidente di Federparchi