Federparchi Liguria: le misure del governo sono insostenibili per l’economia dei parchi liguri
Peste suina africana: è la caccia la vera responsabile
Ma per i cacciatori piemontesi la colpa è di ambientalisti e i lupi
[14 Gennaio 2022]
Dopo i casi riscontrati su cinghiali in Piemonte e Liguria ma anche in Germania, Belgio e Paesi dell’Est Europa, con un’ordinanza dei ,inistri della salute Roberto Speranza e delle politiche agricole Stefano Patuanelli il governo ha emanato i provvedimanti per contrastare la diffusione della peste suina africana (PSA).che prevedono il divieto di ogni attività venatoria salvo la caccia selettiva al cinghiale nella zona stabilita come infetta da Peste Suina Africana, ossia 114 Comuni di cui 78 in Piemonte e 36 in Liguria, dove la presenza di allevamenti è per fortuna molto contenuta. Nell’area circoscritta. Sonaltresì vietate la raccolta dei funghi e tartufi, la pesca, il trekking, il mountain bike e le altre attività di interazione diretta o indiretta con i cinghiali infetti. L’ordinanza in vigore per 6 mesi ha l’obiettivo di «Pporre in atto ogni misura utile ad un immediato contrasto alla diffusione della Psa e alla sua eradicazione a tutela della salute del patrimonio faunistico e zootecnico suinicolo nazionale e degli interessi economico connessi allo scambio extra Ue e alle esportazioni verso i Paesi terzi di suini e prodotti derivati».
Ma la polemica non cessa e anzi sembra rinfocolarsi.
Il Tavolo Animali & Ambiente, costituito da Enpa, LAV, Legambiente, LIDA, LIPU, OIPA, PAN, Pro Natura e SOS Gaia ribadisce la sua posizione: «Non c’è pace sul fronte cinghiali. Mentre infuriano le polemiche sulle responsabilità della proliferazione della specie e sull’inefficacia dell’attività venatoria nel contrastarla, ecco che saltano fuori alcuni casi di peste suina, per il momenti circoscritti ad alcune zone della provincia di Alessandria, ma che si teme possa presto estendersi, con conseguenze economiche che potrebbero essere drammatiche. La reazione del mondo venatorio, e di quella parte politica che lo appoggia incondizionatamente, è stata come al solito caratterizzata dall’isterismo e dalla negazione dei fatti. Secondo costoro, infatti, la comparsa della malattia sarebbe dovuta a non meglio precisati eccessi di protezione nei confronti della specie. Anche il lupo è stato chiamato in causa, dimenticando l’elementare norma ecologica che dimostra come la presenza dei predatori naturali sia una delle più efficaci misure per il contenimento delle epidemie».
Ma per il Tavolo Animali & Ambiente, Piero Belletti Pro Natura, evidenzia che «Le cose non stanno come i cacciatori affermano, anzi. Intanto ricordiamo che la proliferazione del cinghiale è dovuta anche, se non soprattutto, alle immissioni che furono fatte negli anni scorsi dagli Enti Pubblici, rispondendo a precise richieste del mondo venatorio. Si preferirono ceppi di provenienza centro-europea piuttosto che quelli autoctoni del nostro paese, in quanto più grandi e prolifici. Ma anche più voraci e quindi in grado di arrecare maggiori danni alle attività agricole. L’attività venatoria nei confronti del cinghiale è poi stata sempre gestita non in modo da ridurre la presenza degli animali sul territorio, ma solo per garantire la possibilità di continuare a cacciare l’animale anche in futuro, favorendone, grazie alla battute effettuate con l’ausilio dei cani, la fuga e la conseguente dispersione sul territorio. Si è così venuta a creare quella situazione di cui giustamente gli agricoltori si lamentano: una sorta di allevamento brado, nel quale il mondo agricolo affronta tutte le spese e i cacciatori traggono tutti i vantaggi».
Belletti fa notare che «Il mondo venatorio, con un tempismo veramente eccezionale, spalleggiato dall’ “Assessore ai Cacciatori” della Regione Piemonte, ha anche recentemente proposto l’istituzione di una “filiera della carne di cinghiale”. Questa, originariamente, aveva un unico scopo: aggiungere all’aspetto ludico della caccia al cinghiale anche un utile economico. Ora, in presenza dei primi focolai di peste, la proposta appare del tutto insensata e dimostrativa dell’interesse che il mondo venatorio ha per tutto ciò che non riguarda la loro attività».
Le Associazioni del Tavolo Animali & Ambiente ribadiscono quanto già da tempo affermato: «La gestione del problema cinghiale, la cui soluzione risulta peraltro di difficile ottenimento, deve escludere la componente venatoria, in quanto palesemente coinvolta da conflitti di interesse e incapace di affrontare in modo complessivo le problematiche dell’ambiente naturale».
Perplessità sul provvedimento preso dal governo, che riguarda anche i territori dei parchi regionali del Beigua e dell’Antola, arrivano dal coordinatore di Federparchi Liguria Roberto Costa che parte dalla premessa che «Si è giunti a una situazione critica per il dilagare a macchia d’olio della presenza dei cinghiali sul territorio, anche per una confusione di fondo fra l’attività venatoria, peraltro pienamente legittimata dalle normative nazionali, ma da considerarsi attività prettamente ludico-sportiva, e l’attività di selezione e contenimento della specie, che è altra cosa e deve essere praticata con altri strumenti e obiettivi».
Federpachi Liguria aggiunge: «Fatta questa premessa, che tuttavia dovrà servire per giungere una volta per tutte alla ricerca di soluzioni durature ed efficaci nel controllo di questo selvatico il problema, nell’attualità, è rappresentato dalle ordinanze del Ministero della Salute, con relativa definizione dell’areale interessato, finalizzate al contenimento dell’epidemia in corso. Senza entrare nel merito dei provvedimenti autonomamente assunti dal Ministero della Salute, va fatto presente tuttavia che la chiusura prolungata (si parla di 6 mesi, e quindi fino al 13 luglio 2022) di interi territori montani ad attività importanti come escursionismo, MTB biking, turismo equestre, ricerca funghi, rischia di trasformarsi in un nuovo “lockdown” per un entroterra ligure già pesantemente colpito da due anni di pandemia portando alla chiusura di innumerevoli attività di ogni tipo il cui reddito proviene, del tutto o in parte, dalla presenza del turismo “outdoor”: rifugi, agriturismi, attività alberghiere, guide naturalistiche, accompagnatori turistici, centri educazione ambientale, produttori tipici, in particolare nei settori carne, miele, latte, formaggi, taglialegna, allevatori, centri turismo equestre, ecc».
Per questo Costa chiede che «I provvedimenti restrittivi alla mobilità pedonale e ciclabile siano quanto più possibile temporanei e provvisori, e che essi vengano comunque almeno graduati per livello di rischio territoriale e garanzie di pratica in sicurezza, per esempio evitando chiusure totali ma esclusivamente indicando prescrizioni quali l’obbligo di seguire i sentieri segnalati, non portare cani, consentire l’accesso a gruppi controllati, guidati e numericamente limitati, in particolare se diretti a mete precise quali rifugi, altre strutture di accoglienza, beni ambientali, storici e architettonici. L’ordinanza ministeriale sembra contemplare la possibilità di deroghe specifiche ed è su queste che il territorio dell’entroterra potrebbe contare per non trovarsi chiuso di fatto per mesi, e in tal senso chiediamo anche a Regione Liguria di farsi parte attiva alla ricerca di soluzioni meno penalizzanti».
Inoltre, Federparchi Liguria chiede e che, «Come accaduto per bar, ristoranti, palestre e discoteche durante le chiusure collegate con la pandemia Covid-19, vengano previsti adeguati ristori per tutte le attività direttamente o indirettamente danneggiate, accelerando comunque per quanto possibile tutte le fasi dell’intervento avviato per evitare ulteriori danni ad una vasta utenza turistica ed all’economia di territori già pesantemente svantaggiati dalle limitazioni derivanti dall’epidemia Covid-19».