
Scindere i dati sulla biodiversità dall’iniquità sociale e politica

Lo studio “Biodiversity monitoring for a just planetary future. Data that influence policy and major investment decisions risk entrenching social and political inequities”, pubblicato su Science da un team di ricercatori statunitensi, britannici e canadesi guidato da Melissa Chapman del National Center for Ecological Analysis and Synthesis dell’università della California - Santa Barbara (NCEAS), richiama l'attenzione sull'equità sociale e politica nei dati sulla biodiversità e discute delle le possibili implicazioni politiche.
Al NCEAS ricordano che «La raccolta di dati sulla biodiversità sta crescendo in modo esponenziale. L’aumento è guidato in parte dagli impegni internazionali per la conservazione, dagli investimenti di mercato e dai progressi tecnologici, nonché dalla crescente urgenza degli impatti umani, compreso il cambiamento climatico. Le nazioni fanno sempre più affidamento sui dati sulla biodiversità per raggiungere strategicamente gli obiettivi di conservazione globale per i prossimi decenni. Ma non tutti i dati vengono raccolti allo stesso modo».
La Chapman e i suoi colleghi dimostrano che «I dati sulla biodiversità sono sempre più concentrati nei Paesi ricchi. Questo contesto dovrebbe essere portato alla luce per prevenire un’attuazione iniqua dei progetti di conservazione». La principale autrice dello studio spiega che «I dati sulla biodiversità ci forniscono una visione senza precedenti dei modelli ecologici su scala globale, che può fornire informazioni importanti sulle priorità delle nazioni per la conservazione futura. Ma l’applicazione di questi dati al processo decisionale spesso rivela di più su noi umani come specie che su qualsiasi altra specie. I dati sulla biodiversità tracciano non solo città e strade, ma anche l’ascesa della tecnologia di sorveglianza, le ombre delle storie coloniali e gli echi delle disparità razziali ed economiche contemporanee. Possiamo vedere di tutto, dagli aspetti negativi ai conflitti armati fino ai modelli macroeconomici».
Come riassume bene Warren Cornwall su Anthropocene: «Le specie vengono individuate in modo sproporzionato nei Paesi più ricchi, dove più scienziati esplorano il territorio, il che significa che il Nord America, l’Europa e l’Australia ricevono un’enorme quantità di attenzione. I disordini sociali possono distorcere le cose. Le osservazioni ecologiche provenienti dalla Cambogia, nel sud-est asiatico, sono crollate durante gli anni ’70 e ’80 , periodo di guerra civile e del regime omicida dei Khmer rossi. Anche a livello locale, la discriminazione passata può influenzare quali aree siano più ricche di natura. Negli Stati Uniti, le restrizioni razziali discriminatorie su chi poteva acquistare case in determinati quartieri – note come redlining – hanno fatto sì che i quartieri più bianchi e ricchi avessero più spazi verdi e, di conseguenza, all’incirca il doppio del numero di uccelli avvistati».
I ricercatori evidenziano che «Queste dimensioni umane influiscono non solo sull’effettiva diversità delle specie non umane, ma anche sul modo in cui tale diversità viene osservata e quantificata. Ad esempio, la portata del colonialismo europeo è ancora evidenziata dalla distribuzione delle specie animali e vegetali europee nel mondo. Le aree maggiormente colpite dalle industrie estrattive sono talvolta le più studiate. In questi casi, la raccolta dei dati dipende dalla continua estrazione delle risorse».
Una mappa e un grafico che pubblichiamo mostrano come i dati sulla biodiversità vengano raccolti in modo sproporzionato nei Paesi ad alto reddito e come questo trend iniquo sia cresciuto esponenzialmente nel tempo, Il NCEAS sviluppa un database internazionale finanziato dal governo Usa che raccoglie oltre 2,6 miliardi di osservazioni di specie in tutto il mondo, con lo scopo di aiutare a orientare le decisioni politiche su una serie di progetti legati alla conservazione, come la gestione di specie in via di estinzione o invasive. Ma basta uno sguardo alla mappa dei dati per capire che spesso non corrisponde agli hotspot della biodiversità. Mentre gli Stati Uniti e l’Europa pullulano di osservazioni, le foreste pluviali dell’Africa centrale – luoghi molto più ricchi di specie – sono relativamente spoglie.
La Chapman ha iniziato questo studio mentre era ancora una studente laureata in scienze e politiche ambientali all’università della California – Berley a UC Berkeley, dove ha avviato un reading group con i suoi colleghi di sociologia ed ecologia politica per approfondire le questioni relative alla giustizia dei dati e all’equità algoritmica. La sua attuale ricerca interdisciplinare deriva da quel lavoro e oggi il suo team e i suoi coautori, tra i quali esperti in informatica ed ecologia, si chiedono: «I migliori dati disponibili sono davvero uno standard adeguato?»
La Chapman risponde che «Una migliore conservazione non significa solo una maggiore raccolta di dati o metodi statistici migliori. Si tratta anche di una migliore comprensione del contesto sociale, culturale e politico che sta dietro i dati ambientali. Nessun ambito, credo, ha la risposta a questo problema. "E questo è un ottimo motivo per essere al NCEAS» che da quasi 30 anni è un centro leader nella scienza di sintesi, dove team di interdisciplinari esperti sfruttano i dati esistenti per rispondere a domande complesse.
Una possibilità è quella di aumentare il numero di osservazioni con nuovi strumenti, inclusi programmi di citizen science e il DNA ambientale (eDNA). Ma gli autori dello studio avvertono che «Questi strumenti possono anche rivelarsi delle trappole. Sebbene mantengano la promessa di colmare i gap nei dati, ci sono prove che le nuove fonti di dati stanno facendo eco agli squilibri del passato. Anche una modellazione più sfumata potrebbe aiutare. Ma sarà difficile tenere conto di così tante variabili sociali. Mentre una cosa è controllare fattori come la vicinanza di un’area a strade o città, è molto più difficile tracciare gli effetti di decisioni come chi riceve finanziamenti scientifici».
La Chapman evidenzia che «Gli scienziati hanno compreso queste ingiustizie contestuali dei dati da molto tempo. Ma con un drammatico aumento dell’attenzione globale e dell’applicazione dei dati sulla biodiversità per la conservazione sul campo, compreso un mercato multimiliardario per le compensazioni della biodiversità, queste disuguaglianze possono essere amplificate e preservate dalla politica».
La posta in gioco è alta. L’adozione del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework della Convention on Biological diversity prevede di aumentare i finanziamenti per il lavoro sulla biodiversità a 30 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. I dati scientifici sulle specie possono influenzare dove viene speso quel denaro.
Gli autori dello studio concludono: «Senza affrontare e correggere direttamente le disparità sociali e politiche nei dati, la comunità ambientalista probabilmente cadrà nelle stesse trappole di altri ambiti: radicando le disuguaglianze del passato e del presente nei futuri processi decisionali attraverso i dati. Il percorso da seguire richiederà qualcosa di più delle semplici soluzioni tecnocratiche, Speriamo in una collaborazione politica scientifica più interdisciplinare e inclusiva per garantire che i dati sulla biodiversità, con tutti i suoi limiti e disuguaglianze intrinseche, vengano applicati nel modo più giusto possibile».
