Trattato per la protezione dell’alto mare: trattative finali all’Onu per concretizzare impegni vaghi
Greenpeace e IDDRI: nuove aree marine protette per proteggere l’oceano dalle attività industriali
[7 Marzo 2022]
Oggi riprenderanno all’Onu, a New York, i negoziati per un trattato sulla conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità in alto mare, sospesi da oltre due anni a causa della pandemia di Covid-19. Si tratta comunque di un meeting che risente ancora di quelle restrizioni e che vedrà la partecipazione di un numero ristretto di delegati statali e delle organizzazioni della società civile.
Ma il fatto che i negoziati stiano riprendendo è già una buona notizia. Le delegazioni hanno sfruttato il tempo che ci separa dall’ultima conferenza intergovernativa dell’agosto 2019 per proseguire con discussioni informali, ma il ritorno al tavolo dei negoziati è atteso da tempo. Per molte aree di lavoro resta ancora tanto da fare e su gran parte dell’attuale bozza di i trattato del maggio 2019 non si è ancora trovato un consenso tra h gli Stati.
Questo nuovo ciclo di negoziati si concentrerà innanzitutto sulle quattro componenti chiave del futuro trattato: 1. le risorse genetiche marine (MGR), comprese le questioni relative alla condivisione dei benefici derivanti dal loro sfruttamento; 2. misure quali gli strumenti di gestione territoriale (ABMT), comprese le aree marine protette (AMP); 3. valutazioni di impatto ambientale (VIA); 4. rafforzamento delle capacità e trasferimento di tecnologia marina.
All’IDDRI, un think tank e un istituto di ricerca politica indipendente che è anche una piattaforma di dialogo multi-stakeholder che individua le condizioni e propone strumenti per porre lo sviluppo sostenibile al centro delle relazioni internazionali e delle politiche pubbliche e private, spiegano che «Le questioni relative alla condivisione dei benefici delle MGR rimangono particolarmente delicate. La bozza di testo non fa più riferimento al patrimonio comune dell’umanità, principio a lungo invocato dal gruppo del G77 (i Paesi in via di sviluppo, ndr), e resta da vedere se la condivisione dei benefici sarà obbligatoria o volontaria e se includerà benefici sia finanziari che non monetari. Il primo richiederebbe presumibilmente l’istituzione di un meccanismo di distribuzione, mentre il secondo richiederebbe alle parti, ad esempio, di facilitare l’accesso ai campioni e condividere le informazioni».
Le discussioni sulle disposizioni per gli ABMT e le AMP sembrano essere un po’ più avanti e coprono già elementi chiave che vanno dall’identificazione dei siti da proteggere alla definizione di piani di gestione. «Tuttavia – dice l’IDDRI – ulteriori miglioramenti al testo potrebbero aumentare la probabilità che eventuali misure future approvate nell’ambito dell’accordo siano efficaci. In particolare, l’accordo potrebbe fare di più per rafforzare il monitoraggio, il controllo e la sorveglianza».
Il processo per le valutazioni di impatto ambientale deve ancora essere finalizzato: non c’è consenso sulle soglie e sui criteri applicabili, mentre i negoziatori del Sud del mondo chiedono impegni più fermi sul rafforzamento delle capacità e sul trasferimento tecnologico, sostenendo un meccanismo obbligatorio.
L’IDDRI ricorda che «Al di là di questi 4 pilastri, i negoziatori dovranno anche finalizzare i meccanismi istituzionali del futuro trattato, che saranno determinanti essenziali dell’efficacia del futuro accordo. Le questioni includono il mandato e il regolamento interno della Conferenza delle parti (COP), il ruolo dell’organismo scientifico e tecnico e il meccanismo della stanza di compensazione, le modalità di finanziamento e le modalità di coordinamento con gli strumenti esistenti. Sebbene la conservazione sia stata l’aspetto più visibile delle discussioni, il successo di qualsiasi misura futura e, più in generale, del sistema dei trattati, dipende da queste disposizioni tecniche ma strategiche».
Non sono previste ulteriori sessioni di negoziazione, quindi i delegati devono affrontare un paio di settimane impegnative mentre tentano di definire il testo del trattato. Ma l’IDDRI, pur mettendo in risalto le difficoltà, è fiducioso: «Data la lunga lista di questioni in sospeso e il turnover all’interno delle delegazioni rispetto alla sessione precedente, sembra irrealistico aspettarsi una rapida conclusione a discussioni che sono già in corso da oltre un decennio. I nuovi arrivati nel processo avranno bisogno di tempo per adattarsi alle complessità e alle peculiarità di questi negoziati, mentre i limiti posti per la salute pubblica influenzeranno sicuramente i progressi che possono essere compiuti. E’ stata una strada lunga e tortuosa ma è facile essere ottimisti per la ripresa delle trattative. Molti Stati si sono scambiati informalmente opinioni durante la pausa, affinando le loro posizioni e creando consenso, quindi i progressi potrebbero essere più rapidi del previsto in alcune aree. Allo stesso tempo, molti Stati hanno anche espresso il desiderio di finalizzare il trattato nel 2022, con la High ambition coalition on Biodiversity Beyond National Jurisdiction (BBNJ), lanciata all’One Ocean Summit di Brest l’11 febbraio che punta esplicitamente a garantire la approvazione di un robusto testo definitivo del Treaty of the High Seas (“the implementing agreement on Biodiversity Beyond National Jurisdiction”), sotto l’auspicio delle Nazioni Unite».
La Coalizione – composta dall’Unione Europea, dai suoi Stati membri (Italia compresa) e da altri Paesi come Marocco, Australia, Canada, Cile… – chiede «L’adozione, entro quest’anno, di un ambizioso trattato per la conservazione e l’utilizzo sostenibile della diversità biologica marina nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale».
Anche Greenpeace evidenzia che l’ultima sessione negoziale per la protezione dell’alto mare inizia in un contesto internazionale particolarmente difficile, ma ricorda che il testo dell’accordo che verrà approvato «Deve assolutamente renderlo possibile creare aree marine protette in alto mare, altrimenti sarà vano. Mentre l’alto mare rappresenta il 64% della superficie degli oceani e quasi la metà della superficie del globo, oggi non hanno una protezione specifica. E’ quindi essenziale un trattato che renda possibile la creazione di aree protette in queste aree, nelle quali attualmente non è possibile regolamentare in modo completo le attività umane. Ha inoltre ottenuto un ampio consenso tra gli Stati presenti all’One Ocean Summit di Brest, organizzato da Emmanuel Macron a febbraio. Dopo le reciproche dichiarazioni, è giunto il momento di concretizzare gli impegni».
Per Greenpeace le priorità sono due: «Adottare misure concrete sui meccanismi di conservazione e governance, che consentiranno una reale protezione degli oceani; definire i livelli di protezione più elevati possibili al fine di proteggere queste aree da qualsiasi attività industriale come la pesca o l’estrazione di acque profonde. Questi due punti sono essenziali per raggiungere l’obiettivo di proteggere il 30% degli oceani protetti entro il 2030, di cui si parlerà alla COP15 Biodiversità in programma il 25 aprile a Kunming, in Cina».
In quanto seconda area marittima più grande del mondo e attuale presidente di turno dell’Unione europea, la Francia ha una grossa responsabilità per il successo di questi negoziati e François Chartier, responsabile della campagna Oceani di Greenpeace France, «Questo trattato sarà utile solo se i mezzi di protezione e attuazione saranno ambiziosi. Le attività umane devono essere escluse dalle zone di protezione, devono essere svincolati i mezzi finanziari, deve essere definito il funzionamento… In quest’ultimo giro di trattative, gli obiettivi e l’ambizione in termini di conservazione non devono essere sacrificati a favore dello sviluppo di industrie in mare. Il consenso internazionale non può andare a scapito della protezione degli oceani».