Trivelle fuorilegge: cosa finisce nell’Adriatico dalle piattaforme offshore
Greenpeace: i monitoraggi seguiti da Ispra su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme
[3 Marzo 2016]
Il rapporto “Trivelle fuorilegge”, pubblicato oggi da Greenpeace, rivela che «Sostanze chimiche inquinanti e pericolose, con un forte impatto sull’ambiente e sugli esseri viventi, si ritrovano abitualmente nei sedimenti e nelle cozze che vivono in prossimità di piattaforme offshore presenti in Adriatico, spesso in concentrazioni che eccedono i parametri di legge».
Il nuovo rapporto ambientalista rende pubblici per la prima volta i dati ministeriali relativi all’inquinamento prodotte da più di 34 trivelle che operano nei mari italiani.
Secondo quanto rilevato da Greenpeace, «laddove esistono dei limiti fissati dalla legge, le trivelle assai spesso non li rispettano. Ci sono contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani. Nei pressi delle piattaforme monitorate si trovano abitualmente sostanze associate a numerose patologie gravi, tra cui il cancro». nEl rapporto si legge che «Tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di Qualità Ambientale (o SQA, definiti nel DM 56/2009 e 260/2010) fanno parte alcuni metalli pesanti, principalmente cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico), e alcuni idrocarburi come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a]pirene e la somma degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Alcune tra queste sostanze sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare raggiungendo così l’uomo e causando seri danni al nostro organismo. Per quel che riguarda gli altri metalli misurati nei tessuti dei mitili non esistono limiti specifici di legge che consentano una valutazione immediata dei livelli di contaminazione. Per verificare il possibile impatto ambientale delle attività offshore sull’accumulo di questi inquinanti è stato perciò effettuato un confronto con dati presenti nella letteratura scientifica specializzata. In particolare, si sono confrontati i livelli di concentrazione di queste sostanze nei mitili impiegati per i monitoraggi delle piattaforme con i livelli di concentrazione rilevati in altre aree dell’Adriatico, estranee alle attività di estrazione di idrocarburi. Per avere certezza di non sovrastimare i risultati di tale raffronto, sono stati utilizzati come termine di paragone i valori medi stagionali di concentrazione più alti riportati in questi studi. I risultati mostrano che circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa). Per bario, cromo e arsenico la percentuale di campioni con valori più alti era inferiore (37%, 27% e 18% rispettivamente). Molti metalli, presenti nei tessuti dei mitili, possono raggiungere l’uomo risalendo la catena alimentare. Alcuni di questi, come il cadmio e il mercurio, sono particolarmente tossici per gli organismi viventi e per l’uomo stesso. Il cadmio, ad esempio, è un metallo altamente tossico che può generare disfunzioni ai reni e all’apparato scheletrico; è stato inoltre inserito tra le sostanze il cui effetto cancerogeno sull’uomo è noto e dimostrato scientificamente (gruppo 1 dello IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro delle Nazioni Unite)».
L’associazione ambientalista evidenzia che è «Una situazione che si ripete di anno in anno. Nonostante questo, non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o che il Ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari. Alla scarsa trasparenza del Ministero e al quadro ambientale critico si aggiunge il fatto che i monitoraggi sono stati eseguiti da Ispra (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Ambiente) su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. In pratica, l’organo istituzionale (Ispra) chiamato a valutare i risultati del monitoraggio sul mare che circonda le piattaforme offshore – e di conseguenza verificare la non sussistenza di pericoli per l’ambiente e gli ecosistemi marini – opera su committenza della società che possiede le piattaforme oggetto d’indagine (Eni), cosicché il controllore è a libro paga del controllato».