Un oceano più caldo e più affamato
Nelle acque più calde si intensifica la predazione marina e con i cambiamenti climatici questo potrebbe rimodellare le comunità oceaniche
[16 Giugno 2022]
Secondo lo studio “Predator control of marine communities increases with temperature across 115 degrees of latitude”, pubblicato su Science da un folto team internazionale di ricercatori, «Un oceano più caldo è un oceano più affamato, almeno per quanto riguarda i predatori di pesci».
Il team di ricercatori guidato dalla biologa marina Gail Ashton dello Smithsonian Environmental Research Center (SERC) ha scoperto quali saranno gli impatti dei predatori con il picco più elevato delle temperature nell’Atlantico e nel Pacifico a temperature più elevate, con effetti cascata sulle altre forme di vita nell’oceano e con potenziali sconvolgimenti di equilibri che esistono da millenni.
La Ashton ricorda che «Ci sono voluti migliaia di anni per raggiungere questo stato, e poi improvvisamente stiamo aumentando la temperatura a un ritmo molto più alto. E non conosciamo davvero le implicazioni di questo aumento di temperatura».
Ricerche precedenti avevano suggerito che i predatori sono più attivi ai tropici perché le temperature più elevate tendono ad aumentare il metabolismo degli animali. Ma le prove empiriche provenienti da studi più piccoli erano contrastanti. E pochi studi hanno cercato di definire la questione centrale di come le comunità di prede rispondono all’aumento della pressione, che potrebbe prefigurare come sarà un oceano più caldo del futuro.
Uno degli autori dello studio, Emmett Duffy, direttore del Marine Global Earth Observatory network (MarineGEO) dello Smithsonian spiega che «Le acque più calde tendono a favorire gli animali in cima alla catena alimentare, che diventano più attivi e hanno bisogno di più cibo e sono le loro prede che pagano per questa maggiore attività. Questo suggerisce che con il riscaldamento dei mari si potrebbero vedere grandi cambiamenti nella vita degli habitat dei fondali marini sensibil».
Lo studio è uno dei più completo realizzati finora: il team internazionale guidato dallo Smithsonian e dalla Temple University ha coordinato partner in 36 siti che vanno dalle coste degli Oceani Atlantico e del Pacifico delle Americhe, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, e In ogni sito i ricercatori hanno eseguito gli stessi tre esperimenti su predatori e prede.
Nel primo esperimento, hanno monitorato l’attività complessiva dei predatori usando “squid pop”, progettati da Duffy e dal team MarineGEO, che somigliano ai cake pop dei coffee shop. Al SERC spiegano che «Gli scienziati attaccano un pezzo di calamaro essiccato, un’esca standard utilizzabile ovunque, a un bastoncino e lo lasciano sott’acqua per attirare i pesci. Dopo un’ora, gli scienziati verificano quanti pop di calamari erano stati divorati» e i risultati hanno confermato i loro sospetti: «Nei siti più caldi, la predazione era più intensa; nelle acque più fredde (sotto i 20° C), la predazione è scesa vicino allo zero».
Un’altra autrice dello studio, Amy Freestone che insegna biologia alla Temple University, evidenzia che «Questa soglia di temperatura rappresenta un punto di svolta ecologico in questi ecosistemi marini costieri, al di sopra del quale aumenta l’intensità della predazione. Con il cambiamento climatico, più acque costiere supereranno questo punto di non ritorno, o si riscalderanno ulteriormente, cambiando radicalmente il modo in cui funzionano questi ecosistemi».
Ma questo non bastava a rispondere alla domanda più urgente: cosa significherà un oceano più caldo e più affamato per il resto della vita nella rete alimentare marina?
Per questo, i ricercatori hanno attuato gli altri due esperimenti: per vedere come i predatori avrebbero un impatto sulla loro crescita e abbondanza. hanno osservato gli invertebrati subacquei sessili, come i tunicati e i briozoi, dei quali si cibano. In un esperimento, hanno osservato per tre mesi le prede colonizzare e crescere su pannelli di plastica sott’acqua. Alcune avevano gabbie protettive che tenevano fuori i predatori, mentre altri erano lasciati aperti e vulnerabili. Nell’esperimento finale, hanno messo per 10 settimane gabbie protettive intorno a tutte le prede sottomarine, quindi hanno liberato metà delle comunità di prede per altre due settimane. Il risultato è che «Nelle acque più calde, gli appetiti più voraci dei predatori hanno lasciato segni enormi sulla comunità delle prede. Quando le prede sono state lasciate non protette, ai tropici la biomassa totale delle prede è precipitata. Ma nelle zone più fredde, lasciare le prede esposte o protette non faceva quasi alcuna differenza, suggerendo che lì i predatori non rappresentassero una grande minaccia».
Un coautore dello studio, l’ecologista marino Mark Torchin dello Smithsonian Tropical Research Institute, sottolinea che «Da precedenti lavori a Panama, sapevamo che la predazione nei neotropici può essere intensa. Tuttavia, lavorare con i nostri colleghi nelle Americhe ci ha permesso di testare la generalità di questo e di valutare come cambiano gli effetti della predazione negli ambienti più freddi».
Con l’accesso dei predatori in acque più calde sono cambiati anche i tipi di organismi preda: ai predatori piaceva mangiare le ascidie, tunicati solitari, che ai tropici subivano gravi quando non erano protette. Ma i briozoi incrostanti conquistavano lo spazio appena veniva lasciato libero dai tunicati perché i pesci non li mangiavano quasi mai. Al SERC fanno notare che «I tunicati solitari filtrano l’acqua e forniscono angoli e fessure in cui altri organismi possono stabilirsi, due funzioni importanti che i briozoi non svolgono altrettanto bene. Ma sono solo un esempio di come un aumento dell’attività dei predatori potrebbe alterare gli ecosistemi mentre gli ecosistemi più freddi si riscaldano».
Greg Ruiz, a capo del Marine Invasions Research Lab del SERC, conferma: «Man mano che la predazione cambierà, alcune specie saranno vincitrici e altre perdenti. Alcune saranno difese, altre saranno vulnerabili. Ma non sappiamo esattamente come andrà a finire».
Le recenti ondate di caldo marine mostrano già come l’acqua più calda può devastare gli ecosistemi di acqua fredda e inoltre suggeriscono che i gestori della pesca che stabiliscono restrizioni per prevenire la pesca eccessiva potrebbero dover fare i conti con qualcon sa di non previsto e dovuto al cambiamento climartico.
Dal 2013 al 2016, un’enorme zone di acqua calda, chiamata “The Blob” ha occupato gran parte del Golfo dell’Alaska. Entro il secondo anno, le popolazioni di merluzzo bianco erano crollate del 70%, costringendo i gestori a chiudere gran parte di un’attività di pesca da 100 milioni di dollari all’anno . Solo un attento monitoraggio ha consentito agli scienziati di capire quale fosse il problema e di rispondere. Dietro la scomparsa del pesce c’erano le temperature più calde hanno fatto schizzare alle stelle il metabolismo dei merluzzi che poi sono morti di fame.
Nel frattempo, rimane un mistero ancora più grande cosa accadrà all’equatore, dove le acqua sono già più calde della media di quelle esaminate nello studio, con le temperature che potrebbero aumentare anche più di quanto gli scienziati possono ipotizzare oggi, non è chiaro se i pesci diventeranno ancora più affamati o se alcune specie non saranno in grado di sopportare il caldo, modificando la pressione alimentare in modi inaspettati. e la Ashton conclude: «Non sappiamo davvero cosa potrebbe accadere ai tropici, perché non abbiamo dati su quelle temperature più calde».