La Davos del Deserto: la crescita globale sostenibile è raggiungibile, ma devono essere gestiti i rischi
Christine Lagarde (Fmi): futuro oscuro con cambiamenti climatici e disuguaglianza
La “terza via” di Tony Blair si è insabbiata nel deserto
[25 Ottobre 2017]
Ieri, dopo il saluto del principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman Al-Saud, la Future Investment Initiative (Fii) in corso a Riyadh si è aperta con la tavola rotonda “The big shift: what new frameworks are needed to understand the future?” che partiva da una costatazione e aveva l’intento di rispondere ad alcune domande: «Molti dei modelli istituzionali utilizzati per costruire organizzazioni nel XX secolo non sono più rilevanti. Come risultato, sono necessari nuovi quadri sociali, economici e intellettuali per promuovere progressi e raggiungere ambiziosi obiettivi su vasta scala. Come dovrebbe innovare i leader del settore pubblico e privato per riuscire nell’era della crescita tecnologica esponenziale? Quali tendenze emergenti possono avere il maggior impatto nei prossimi due decenni? Quali problemi ignorati meritano una maggiore attenzione? E come il mondo deve progettare un futuro quando il passato non è più un utile punto di riferimento?»
A rispondere a queste domande epocali sono stati i sauditi Yasir Othman Al-Rumayyan, direttore esecutivo del Board, Public Investment Fund (Pif), e Amin Nasser, presidente di Saudi Aramco, Victor Chu, presidente e Ceo del First Eastern Investment Group di Hong Kong, gli statunitensi Larry Fink, presidente e Ceo di BlackRock, e David McCormick, co-Ceo di Bridgewater Associates, e la direttrice esecutiva del Fondo monetario internazionale (Fmi) Christine Lagarde. E proprio la Lagarde ha detto che se il mondo non prenderà subito «decisioni critiche» sul riscaldamento globale «saremo tostati, arrostiti e grigliati».
La Lagarde, ha aperto la tavola rotonda evidenziando l’attuale stato dell’economia internazionale è più positivo di quanto lo fosse ormai da molto tempo con una crescita globale del 3,7, ma ha aggiunto che «Ci sono due chiare sfide che la comunità internazionale deve affrontare, che influenzeranno fondamentalmente lo sviluppo nei prossimi cinque decenni: il cambiamento climatico ei rischi derivanti dalla crescente diseguaglianza. Affrontare queste due questioni è fondamentale per garantire un futuro positivo».
La direttrice del Fmi ha avvertito la ricchissima e potentissima platea che affolla il King Abdul Aziz International Conference Center and The Ritz-Carlton, Riyadh che «Il mondo dovrà affrontare un futuro oscuro se non riuscirà ad affrontare i cambiamenti climatici e le disuguaglianze, Se non affrontiamo queste questioni … entro 50 andremo incontro a un futuro oscuro».
In casa del più fedele alleato degli Usa in Medio Oriente insieme a Israele, la Lagarde ha indirettamente criticato la decisione di Donald Trump (rimasto solo insieme alla Siria) di uscire dall’Accordo sul clima di Parigi del 2015 che ha fissato misure per ridurre le emissioni di gas serra e per impedire che le temperature crescano di più di due gradi in circa 50 anni. Una scelta duramente criticata da molti leader mondiali e non seguita nemmeno dai sauditi, che pure avevano capeggiato a lungo il fronte anti-Protocollo di Kyoto, tanto che l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha detto che Trump si è messo dalla parte sbagliata della storia.
La Lagarde, che è stata a lungo una strenua sostenitrice del neoliberismo e dell’austerità (per i poveri e la classe media) ha anche chiesto ai potenti riuniti a Riyadh di affrontare la disuguaglianza tra uomini e donne e tra i Paesi ricchi e poveri e ha ammonito: «Se il mondo vuole un futuro che sembri un’utopia e non una distopia, deve affrontare queste preoccupazioni», Poi, in casa del misogino regime assoluto petrolifero, ha previsto che «Entro 50 anni il petrolio sarà una commodity secondaria».
Salman Al-Saud, il nuovo uomo forte dell’Arabia Saudita, colui che ha voluto la sporca guerra dello Yemen e che tenta di strozzare il Qatar in funzione anti-iraniana, ha detto che la Fii, che ormai è stata ribattezzata la “Davos del Deserto” paragonandola all’annuale summit del World economic forum in Svizzera, rappresenta «una piattaforma che ci aiuta a forgiare le relazioni, condividere idee e esplorare opportunità future».
Anche Fink e McCormick si sono detti molto preoccupati per la crescente disuguaglianza ed entrambi hanno anche citato «l’aumento del populismo in Occidente, che è stato aggravato dalla tecnologia», come uno dei più grandi rischi oggi.
Chu ha invece parlato dalla prospettiva cinese, citando l’infrastruttura e l’iniziativa di sviluppo “One Belt, One Road” come «esempio chiave di una politica a lungo termine per un vantaggio economico più ampio per le economie di frontiera emergenti».
Presentando i piani di investimento della monarchia assoluta saudita, Al Rumayyan ha sottolineato l’importanza di creare nuove partnership internazionali e ha citato i recenti accordi che il Fondo saudita ha fatto con Softbank e Blackstone. Il direttore generale del Fondo saudita ha anche affrontato il tema della più ampia strategia di investimento del Pif, compreso l’impegno a «localizzare le tecnologie in Arabia Saudita, con le quali si spera di creare più di 20.000 nuovi posti di lavoro entro il 2020».
Nasser, il boss della Saudi Aramco, ha parlato del futuro dell’energia, rilevando l’enorme potenziale per le energie rinnovabili, ma dicendosi anche convinto – a differenza della Lagarde – che «gli idrocarburi continueranno a svolgere un ruolo chiave nell’economia mondiale per molti decenni». Nasser ha però concordato sull’importanza di «esplorare come ridurre e stoccare le emissioni di carbonio e creare sistemi energetici più efficienti, costruendo capacità rinnovabili».
Ritornando alle tematiche dello sviluppo sociale globale, Fink si è detto convinto che «l’istruzione sarà fondamentale per le economie emergenti che vogliono proseguire ad avere forti tassi di crescita», sottolineando l’importanza di tutti coloro che svolgono un ruolo di «equiparazione del mondo».
La Lagarde ha concluso proponendo ai partecipanti alla DAvos del deserto una nuova politica globale che sa di autocritica e che prevede il superamento dell’avidità diventata virtù: «Il nuovo ordine sta arrivando, ma dovrebbe essere centrato sulla comunità, sulla uguaglianza e sulla fiducia».
Il problema è che i cantori di questo nuovo ordine sono troppo spesso quelli che avevano presentato quello attuale come l’unico possibile, a cominciare dall’ex primo ministro britannico Tony Blair che con il suo New Labour Party ha dato inizio alla corsa al centro della sinistra che si è rivelata fatale per chi propugnava proprio quegli ideali di comunità, uguaglianza e fiducia, raccolti oggi da terra da una conservatrice preoccupata come la Lagarde,
E’ stato proprio Blair, amico ben pagato dei sauditi e loro strenuo alleato in tutte le disastrose guerre mediorientali statunitensi, dall’Iraq, alla Siria, all’Afghanistan fino allo Yemen, a concludere la seconda sessione del Fii di Riyadh, nella quale si è parlato dei nuovi quadri che potrebbero dare forma all’economia globale nei prossimi decenni e di come i big data stiano guidando la nuova economia dell’informazione. L’amministratore delegato della Siemens, Joe Kaeser, ha sottolineato l’importanza di mettersi d’accordo sulle finalità dei dati, rilevando che «I big data possono aiutare l’umanità a superare i grandi ostacoli esistenti. I dati possono persino aiutarci a sconfiggere il cancro».
Persino Ajay Bangam, presidente e Ceo di MasterCard, ha chiesto con forza «Un nuovo sistema normativo che copra sia la sicurezza che l’etica per garantire che tutti i benefici che i big data porteranno non vadano persi attraverso un uso improprio». Mohamed Alabbar, presidente di Emaar, ha citato l’importanza di «utilizzare i big data non solo a vantaggio del business, ma anche a beneficio della società» e Lubna Olayan, Ceo dell’Olayan Financing Company, ha sottolineato come i big data abbiano aiutato la sua compagnia a migliorare l’efficienza, ridurre i costi e innovare i nuovi prodotti, ma si è anche detta fiduciosa sul fatto che «La maggiore responsabilità sociale della nuova generazione dovrebbe aiutare a condurre l’uso dei big data nella giusta direzione».
Insomma, i super-ricchi a Riyadh hanno dimostrato di essere almeno consapevoli che il mondo che hanno plasmato con il neoliberismo e con la crisi finanziario/economica iniziata nel 2008 non è proprio il paradiso che ci avevano profetizzato Donald Reagan e Margaret Thatcher. Ma forse i sauditi potevano farne a meno di affidare le conclusioni della seconda sessione della Davos del deserto proprio all’allievo di “sinistra” della Thatcher, Tony Blair, uno che ha ammesso che la guerra contro l’Iraq (la madre di tutte le attuali guerre mediorientali e di gran parte del terrorismo islamo-fascista) era frutto di una bufala sulle armi di distruzione di massa inventata da Goerge W, Buh e da lui.
Invece è toccato proprio al ben remunerato ex premier britannico tanto ammirato da Matteo Renzi (che però da mesi non lo cita più), dare una valutazione dell’attuale direzione presa dalla politica internazionale e dall’economia mondiale. D’altronde, Blair aveva già dimostrato la sua preveggenza prevedendo una sconfitta della Brexit e vaticinando che il ritorno a sinistra del Partito Laburista con Jeremy Corbyn sarebbe stato un disastro elettorale e politico: la Brexit ha vinto e il Labour non aveva mai preso mai tanti voti da quando Blair lo aveva portato alla sconfitta ed è di nuovo in splendida salute.
E Blair a Riyadh ha ritirato fuori uno dei cavalli di battaglia della sua fallimentare terza via, affermando nella più che nazionalista, iperconservatrice e bigotta Arabia Saudita che «I paesi hanno una scelta tra il nazionalismo o le riforme» ed ha portato ad esempio proprio la tecnocratica Vision 2030 della monarchia assoluta saudita voluta dal principe ereditario Salman Al-Saud, presentandola come «La cosa più importante ed emozionante da attuare nella regione negli ultimi anni» e ha aggiunto che, nonostante le sfide che ha di fronte, «E’ fondamentale che riesca in quanto influenzerà la regione e la sicurezza del resto del mondo».
Insomma, per il “socialista” Blair la sicurezza e il benessere del Medio Oriente sarebbero (ancora) nelle mani si un regime teocratico sunnita-wahabita accusato di finanziare gruppi e milizie jihadiste, che sta conducendo una guerra genocida nello Yemen e che non nasconde di essere pronta a farne un’altra con l’Iran in funzione anti-sciita e di volersi dotare di armi nucleari.
La “terza via” di Blair sembra essersi insabbiata nel deserto e persino la conservatrice Lagarde lo ha ormai superato a sinistra.