Clima: al via la Cop22 a Marrakech, con la paura che vinca Trump
Ma sarebbe isolato nel mondo. Le questioni in discussione al summit in Marocco
[7 Novembre 2016]
Comincia oggi a Marrakech, in Marocco, la 22esima Conferenza delle parti dell’United Nations framework convention on climate change (Cop22 Unfccc), ma i circa 20.000 partecipanti aspetteranno per due giorni col fiato sospeso di sapere chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America prima di cominciare a discutere davvero di come applicare l’Accordo di Parigi entrato in vigore il 4 novembre, e concordare le nuove regole per limitare il riscaldamento globale.
A preoccupare tutti, a cominciare dalla Cina che il 4 novembre ha annunciato la riduzione entro il 2020 delle sue emissioni di CO2 per unità di Pil del 18% in rapporto al 2015, è la possibile vittoria di Donald Trump, che ha definito i cambiamenti climatici una bufala inventata proprio dai cinesi e che all’inizio dell’anno ha dichiarato che se vincerà annullerà l’Accordo di Parigi perché è un male per il business Usa e «permetterebbe ai burocrati stranieri di avere il controllo su quanta energia usiamo».
Proprio la paura di una vittoria di Trump, che sul cambiamento climatico sembra avere l’appoggio di quasi tutto il Partito repubblicano Usa, ha probabilmente portato la Comunità internazionale a sottoscrivere l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi prima del previsto, rendendolo così vincolante – e molto problematico uscirne per chiunque sarà il nuovo presidente Usa. Come ha spiegato la ministro dell’Ecologia francese Ségolène Royal, presidente della Cop21 Unfccc, «l’Accordo di Parigi vieta qualsiasi uscita per un periodo di tre anni, più un periodo di preavviso di un anno, quindi ci saranno quattro anni stabili». Esattamente il periodo del possibile mandato presidenziale di Trump.
Ma, anche con questa camicia di forza addosso, sarebbe comunque difficile per il resto del mondo avere a che fare con Trump e il suo eco-scetticismo e negazionismo climatico e la sua determinazione a rilanciare l’industria del carbone, che lo ha messo in contrasto con la maggior parte dei leader internazionali.
Come ha detto Khalid Potts di Sierra Club, la più grande e diffusa associazione ambientalista Usa, «eleggere un teorico della cospirazione della scienza climatica come Trump rendere l’America uno zimbello globale e la imbarazzerebbe, rinunceremo per tutto il suo mandato al nostro ruolo di leadership nel mondo. Le calotte polari non negoziano, e nemmeno l’innalzamento d mari. Se sarà eletto, l’incapacità morale di Donald Trump nel riconoscere la crisi climatica potrebbe benissimo significare un disastro planetario».
Sul cambiamento climatico Trump appare solo e isolato, se si escludono i polacchi e qualche altro regime ex-comunista che però deve rispettare gli impegni dell’Unione europea. Sierra Club ha fatto una ricognizione sull’atteggiamento dei nuovi leader mondiali, evidenziando come Trump sarebbe l’unico capo di stato al mondo a negare la scienza e i pericoli del cambiamento climatico. Il dossier intitolato “New Leaders, Same Reality” sottolinea infatti che anche la neoliberista Teresa May, che ha sostituito David Cameron alla testa del Partito conservatore e del governo della Gran Bretagna, nonostante l’ambiguità iniziale riguardo alla sua posizione, è stata molto chiara quando, poco dopo il suo insediamento è intervenuta all’Onu: «Noi continueremo a fare la nostra parte nello sforzo internazionale contro il cambiamento climatico. E in dimostrazione del nostro impegno per l’Accordo raggiunto a Parigi, il Regno Unito inizierà le sue procedure interne per consentirne la ratifica completandole prima della fine dell’anno».
In Brasile il discusso presidente Michel Terner – che ha sostituito Dilma Rousseff – non molto tempo dopo il suo insediamento ha presieduto alla ratifica dell’Accordo di Parigi, dicendo che «il problema del clima è una questione di Stato. Si tratta di un obbligo per tutti i governi».
In Islanda il nuovo presidente Guðni Thorlacius Jóhannesson, che ha sostituito Ólafur Ragnar Grímsson, abbattuto dallo scandalo fiscale dei Panama Papers, è alla testa di un Paese in cui ad agosto il Parlamento ha approvato all’unanimità l’accordo di Parigi e anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon si è congratulato con lui per la ratifica.
In Perù, Ollanta Humala è stato sostituito alla presidenza della Repubblica da Pedro Pablo Kuczynski, che si dichiara un ardente sostenitore della lotta al cambiamento climatico e che in campagna elettorale ha promesso che farà approvare una efficace Sistema nacional de cambio climático, una legge quadro climatica molto stringente.
Perfino il fascistoide Rodrigo Duterte, che ha sostituito Benigno Aquino III alla presidenza delle Filippine, ha detto durante un discorso alla nazione che «affrontare il cambiamento climatico deve essere una priorità assoluta, ma sulla base di un rapporto giusto ed equo».
In Uzbakistan, il misterioso triunvirato che ha assunto il potere dopo la morte del dittatore Islam Karimov ha confermato come ministro degli Esteri Abdulaziz Kamilov che, intervenendo all’Onu, ha detto: «Oggi i problemi dell’ecologia e del cambiamento climatico hanno un carattere globale – senza precedenti, sia per la loro portata sia per la loro distruttività – Continuano a rimanere al centro dell’attenzione della comunità internazionale. La più grande catastrofe ecologica su scala planetaria nella più recente storia del mondo – la tragedia del Mare di Aral, che nell’arco di una generazione si è rivelato sull’orlo della completa scomparsa – ha un posto speciale in quest’ambito».
In Libano, l’ex presidente ad interim e primo ministro Tammam Salam ha detto ad aprile durante la cerimonia della firma dell’Accordo di Parigi all’Onu: «Il Libano vede l’azione per il clima come un’opportunità non solo per contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra e aumentare la resilienza, ma anche per risolvere molti dei nostri problemi ambientali, sociali ed economici».
Infine anche nelle piccole Seychelles, esposte sul fronte oceanico del cambiamento climatico, Danny Faure, che ha sostituito James Michel alla presidenza dell’arcipelago africano, ha detto a un summit Onu in Etiopia che «il cambiamento climatico rimane il problema più urgente in relazione ai finanziamenti per lo sviluppo delle nazioni» e ha elogiato gli sforzi globali per affrontare il problema.
Però, mentre le delegazioni della Cop22 aspettano a Marrakech di sapere di ci sarà il presidente del più potente – e il secondo più inquinante – Paese del mondo, ci sono molti altri fattori che potrebbero rallentare i progressi dei negoziati climatici, compreso il fatto che finora hanno ratificato l’Accordo di Parigi “solo” 100 Paesi e che ne mangano all’appello quasi altrettanti. Dennis Taenzler di Adelphi, un think tank che si occupa di cambiamento climatico, ha commentato alla BBC News: «L’entrata in vigore dell’Accordo contribuirà a spingere per il progresso nel discutere il processo complessivo dell’attuazione. C’è qualche ragione per aspettarsi che le decisioni chiave saranno rinviate a quando lo avranno ratificato anche le altre parti».
Un’altra grande domanda alla quale dovrà rispondere il summit di Marrakech è se i Paesi riterranno opportuno andare altre quanto concordato a Parigi, che non garantirebbe affatto di rimanere entro un aumento delle temperature di 1,5° C e nemmeno di 2°c, cosa confermata da un rapporto Unep nei giorni scorsi, che ha chiesto di aumentare del 25% gli obiettivi di riduzione dei gas serra entro il 2030.
Non mancano i segnali positivi, come l’accordo di Kigali per la revisione del Trattato di Montreal perf la graduale eliminazione degli Hfc, o il recente accordo per la riduzione delle emissioni del trasporto aereo. Anche Andrew Steer, del World resources institute, conferma: «In realtà ci sono alcune cose notevoli in corso, anche in Nord America, con l’introduzione di una carbon tax in Canada. Per esempio, Canada, Usa e Messico hanno fatto un notevole accordo di tri-partito sul metano. Nel mondo c’è un sorprendente numero di Paesi che stanno mettendo in atto un sistema di carbon pricing. Qualcosa come 40 paesi si sono impegnati già a farlo e ci sono 200 milioni di cinesi sotto carbon pricing, e da qui all’anno prossimo spero che saliranno a 1,1 miliardi».
Alla Cop22 Unfccc di Marrakech si discuterà molto anche di come dovrà essere il futuro “global stock take”, ovvero la revisione quinquennale dei progressi compiuti dai Paesi riguardo agli obiettivi ai quali hanno aderito: una parte fondamentale dell’Accordo di Parigi, pensata per vedere se le promesse dei vari governi verranno mantenute nel tempo e con l’avvicendamento al potere di presidenti e premier.
A Marrakech si dovrà capire anche se i Paesi più ricchi hanno fatto progressi rispetto alla promessa di elargire 100 miliardi di dollari in aiuti ai Paesi in via di sviluppo entro il 2020 per combattere il cambiamento climatico.
Se negli Usa non vincerà Trump (ma se vincerà sarà anche peggio) probabilmente lo scontro più grosso alla Cop22 Unfccc sarà quello sulla compensazione per gli effetti a lungo termine dei cambiamenti climatici, che i Paesi poveri vedono come un obbligo morale dei ricchi, mentre i governi dei Paesi sviluppati non vogliono stabilire una responsabilità legale per i danni causati dal nostro sviluppo industriale, dal nostro iper-consumismo e dalle nostre emissioni di gas serra.