Cop21 di Parigi: «I negoziati Onu sul clima vanno riprogettati con la scienza della cooperazione»
Anche la Cop21 di Parigi sarà un fallimento? La soluzione è fissare un prezzo comune per il carbonio
[13 Ottobre 2015]
Lo studio “Price carbon — I will if you will” pubblicato da Nature non è molto fiducioso si quanto accadrà a dicembre alla 21esima Conferenza della parti dell’Unfccc: «I negoziati al vertice sul clima delle Nazioni Unite a Parigi, il prossimo dicembre, adotteranno un approccio “pledge and review” alla riduzione delle emissioni globali di carbonio. I Paesi promettono di ridurre le loro emissioni secondo importi che saranno rivisti in seguito. La narrazione è che questo “nel tempo consentirà una spirale di ambizione ascendente”. La storia e la scienza della cooperazione fanno prevedere che accadrà tutto il contrario». L’esempio peggiore, ma anche più chiaro, è quello della revisione della prima fase del Protocollo di Kyoto (al quale gli Usa non hanno mai aderito), che alla Cop Unfccc di Doha vide Giappone, Russia, Canada e Nuova Zelanda abbandonare l’accordo, frustrando chi aveva mantenuto le promesse di tagliare le emissioni di gas serra.
Il team di ricercatori dell’Università di Cambridge (David JC MacKay), dell’Università del Maryland
Peter Cramton) e dell’Università di Colonia (Axel Ockenfels e Steven Stoft) non crede molto nell’efficacia degli Intended Nationally Determined Contributions (INDCs) che diversi Paesi hanno presentato in vista della Cop21 di Parigi e sottolinea su Nature che «Il successo richiede un impegno comune, non un mosaico di quelli individuali. I negoziati devono essere progettati per riallineare gli egoismi e promuovere la cooperazione. Un impegno comune in grado di garantire che gli altri partecipanti potranno unire i loro sforzi e non correre da soli. Una strategia “I will if you will” stabilizza i livelli più elevati di cooperazione. E’ il modello più robusto di cooperazione visto in laboratorio e sul campo negli studi di situazioni aperte al free-riding».
Secondo i 4 ricercatori approvare un prezzo globale per il carbonio, cosa fino ad ora esclusa dai negoziati Unfccc, «A nostro avviso, sarebbe la base ideale per un impegno comune. Su un prezzo è facile trovare un accordo e gestirlo, è relativamente equo, meno vulnerabile ai giochetti dei sistemi cap-and-trade sglobale ed è coerente con le politiche climatiche già in atto, come le tasse sui combustibili fossili e il cap-and-trade delle emissioni».
Ma i 4 ricercatori sono consapevoli che «Solo un impegno comune può portare ad un forte trattato» e aggiungono che «40 anni di letteratura empirica e teorica sulla cooperazione confermano che gli impegni non forniscono una forte azione collettiva. I Cooperatori trovano che disertori se ne approfittano». Insomma, come abbiamo visto dal Protocollo di Kyoto in poi, l’ambizione mostrata nelle COP Unfccc cala molto se gli accordi sono su base volontaria. I ricercatori fanno due esempi pratici: «I piatti spesso si impilano nei lavandini deglii appartamenti condivisi. Ma nelle Alpi, gli abitanti sono riusciti con successo a condividere il territorio per centinaia di anni, con un impegno comune di governo dei prati».
Lo studio fa un altro esempio: ad un tavolo ci sono 10 giocatori, 9 dei quali sono “egoisti”; ogni giocatore ha 10 dollari e quasi tutti sono in grado di contribuire ad una cassa comune. C’è anche un arbitro (l’Unfccc) che fa in modo che onorino i loro impegni. Per ogni dollaro (per la riduzione di CO2) la posta nel piatto sarà raddoppiata (dai benefici climatici) e ridistribuita in modo uniforme a tutti i giocatori. Così, mettendo un dollaro nel piatto, ogni giocatore guadagnerà 20 centesimi.
Lo studio prende in considerazione due varianti del gioco. Nella versione “individual commitment”, gli impegni vengono assunti in modo indipendente. «Questo è il classico gioco dei beni pubblici, nel quale la strategia razionale egoista è quella di non contribuire per nulla, perché questo rende di più al giocatore, non importa ciò che gli altri fanno. Il risultato è la nota tragedia dei beni comuni. La cooperazione non avviene, anche se tutti ne guadagnerebbero».
Nella seconda versione “common commitment”, i giocatori condizionano i loro contributi all’impegno degli altri e un arbitro garantisce che tutti contribuiscono almeno con il contributo più basso previsto per ognuno. «Dopo aver fatto rispettare questo impegno comune – sottolineano i ricercatori – il denaro raddoppia e viene distribuito in modo uniforme, esattamente come prima». E questo cambia tutto: «Costituire un pegno di 0 $ significherà semplicemente mantenere i vostri 10 $, mentre promettendo 10 $ vi potrebbe portare a finire con qualcosa tra 10 $ e 20 $, a seconda di ciò che gli altri si impegnano a fare. Quindi, dato che non si può perdere e che impegnandosi si potrebbero ottenere 10 $, questo è quello che si potrebbe fare, anche se si è completamente egoisti. Dal momento che se tutte le parti impegnano 10 $ si raddoppiano i 100 $ del gruppo e tutti finiscono con l’ammontare massimo di 20 $. Il comportamento egoistico viene cambiato dal “contribute nothing” al “contribute everything”, perché l’impegno comune protegge dal free-riding».
E’ quello che venne tentato inizialmente nel 1997 con il protocollo di Kyoto: concordare un impegno comune con quote nazionali, ma è stato un fallimento. Alla fine, ogni governo ha presentato i suoi risultati finali e ne è venuto fuori un puzzle di impegni deboli e instabili. L’Accordo di Copenhagen del 2009 non è servito a fare grandi passi avanti: la Cina si è impegnata ad emettere gas serra pari a quelli considerati business as usual prima l’accordo e l’India ha fatto anche meno.
In molti pensano che il mancato rispetto degli impegni nazionali sia l’ingrediente mancante che ha determinato l’insuccesso del Protocollo di Kyoto, ma i ricercatori dicono che si tratta solo della metà del problema perché, se si vuole che non fallisca anche la COP21 di Parigi, è necessario sia applicare le quote che un impegno comune. E fanno un altro esempio: «Se gli automobilisti scegliessero i propri limiti di velocità, non ci sarebbe alcuna utilità a farli rispettare, perché tutti guiderebbero alla velocità da loro desiderata. Invece, dato che limita anche gli altri, le persone accettano un limite generale di velocità inferiore a quella del limite individuale di quasi tutti. In altre parole, con i singoli impegni, non c’è nulla di significativo da far rispettare, mentre l’applicazione rafforza un impegno comune».
Ma cosa potrebbe costringere davvero tutti i governi a impegnarsi? MacKay, Cramton, Ockenfels e Stoft sono convinti che «I limiti nazionali per la quantità di emissioni non funzioneranno. I negoziatori di Kyoto avevano suggerito almeno dieci formule per determinare le riduzioni che ogni nazione avrebbe dovuto fare, ma non erano d’accordo. Quando l’attenzione si rivolse a ridurre le emissioni entro una certa percentuale rispetto ai livelli del 1990, gli impegni variavano da una riduzione dell’8% ad un aumento del 10%. Gli Stati Uniti e i Paesi in via di sviluppo non assunsero alcun impegno».
Quegli impegni basati sulle percentuali di gas serra non sono stati attati semplicemente perché i Paesi sono diversi tra loro: dopo il 1990 alcune economie (come i Paesi ex sovietici) hanno visto un forte calo, mentre i Paesi in via di sviluppo sono cresciuti e, insieme a quelli emergenti e a quelli più industrializzati come Usa e Giappone, temono che un limite vero alle emissioni freni la loro crescita. Invece, vedono teoricamente giusto ripartire le quote di emissione in condizioni di parità pro capite. Ma, dato che i permit sales comporterebbero enormi trasferimenti di ricchezza verso i Paesi poveri, i Paesi ricchi trovano tali proposte inaccettabili.
Il giudizio dei 4 ricercatori è lapidario: «Non c’è più alcuna seria discussione su un impegno comune per ridurre la quantità di emissioni di carbonio», ma, insieme ad altri, propongono un’alternativa: un impegno per un prezzo globale del carbonio. «Ogni Paese dovrebbe impegnarsi a mettere oneri sulle emissioni di carbonio derivanti dall’uso di combustibili fossili (per esempio, con tasse o schemi cap-and-trade) sufficienti per corrispondere a un prezzo globale concordato, che potrebbe essere fissato per essere votato, con una regola super-maggioritaria che produrrebbe una coalizione dei volenterosi».
Secondo lo studio pubblicato su Nature, «Un prezzo uniforme del carbonio è ampiamente accettato come il modo più conveniente per ridurre le emissioni. Il prezzo del carbonio (a differenza di una carbon tax globale). è flessibile, permettendo di utilizzare fossil taxes, cap-and-trade, schemi ibridi e altre politiche nazionali. Tutto ciò che è richiesto ad un Paese è che il suo prezzo medio del carbonio – il costo per unità di gas serra emessi – sia almeno più alto del prezzo del carbonio globale concordato. «A differenza di un cap-and-trade globale – spiegano ancora i ricercatori – il carbon pricing permette ai Paesi di mantenere tutte le entrate da carbonio, eliminando il rischio di dover acquistare costosi crediti da un Paese rivale. Se una nazione ralizza uno postamento del carico fiscale verso le green tax, non dovrà aumentare le tasse, riducendo le imposte sulle cose buone come l’occupazione e facendo pagare per l’inquinamento. Spostare le imposte dalle cose buone alle cose cattive potrebbe significare non c’è alcun costo sociale netto dei prezzi del carbonio, anche prima del conteggio benefici climatici».
Inoltre, «Un prezzo globale non comporta automaticamente la condivisione degli oneri accettabili». Resta necessario il Green Climate Fund per trasferire fondi dai Paesi ricchi a quelli poveri e «Per ridurre al minimo le controversie, l’obiettivo dei trasferimenti dei fondi per il clima dovrebbe essere quello di massimizzare il prezzo globale del carbonio. Ciò può essere implementato in modo da incoraggiare i Paesi ricchi ad essere generosi e i Paesi poveri a votare per un prezzo globale del carbonio più alto».
I ricercatori concludono: «Dopo decenni di fallimenti, è necessario un nuovo approccio: uno che sia guidato dalla scienza della cooperazione. Un impegno per un prezzo comune potrebbe sfruttare il proprio interesse allineandolo con il bene comune. Niente potrebbe essere più fondamentale».
Commentando lo studio su BBC News, Bob Ward del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment, ha detto: «Si tratta di un contributo riflessivo, ma un po’ troppo pessimista in merito ai negoziati sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. Gli autori hanno ragione che è necessario un prezzo globale sul carbonio, anche se sarebbe, di per sé, insufficiente a generare il ritmo e la portata dell’azione richiesta».