Cop28: la samoana che ha messo in crisi l’Accordo di Dubai
«Abbiamo fatto un progresso incrementale rispetto al business as usual, quando ciò di cui avevamo veramente bisogno è un cambiamento esponenziale»
[14 Dicembre 2023]
Una delle protagoniste delle concitate fasi finali della 28esima Conferenza delle parti dell’United Nations framework convention on climate change (COP28 Unfccc) conclusasi ieri a Dubai è stata la samoana Anne Rasmussen, negoziatrice capo dell’Alliance of Small Island States (AOSIS) che ha ripreso gentilmente ma in maniera molto ferma il presidente della COP28 Sultan Ahmed Al Jaber per aver chiuso le votazioni mentre i piccoli Stati insulari in via di sviluppo non erano presenti in plenaria.
La Rasmussen ha ricordato al presidente/petroliere emiratino che «Stavamo lavorando duramente per coordinare i 39 piccoli stati insulari in via di sviluppo che sono colpiti in modo sproporzionato dal cambiamento climatico, e quindi abbiamo ritardato nel venire qui».
E in questa ormai usualmente ritardata ma anomala conclusione delle COP Unfccc, la negoziatrice capo dell’OASIS ha ricordato, punto per punto, ad Al Jaber e ai delegati di tutti i Paesi del mondo, cosa avrebbero chiesto i piccoli Stati Insulari se il testo dell’Accordo di Dubai non fosse stato adottato senza di loro: «L’AOSIS all’inizio di questa COP aveva un obiettivo, garantire che l’1,5 fosse salvaguardato in modo significativo. I nostri leader e ministri sono stati chiari. Non possiamo permetterci di tornare nelle nostre isole con il messaggio che questo processo ci ha deluso. Questa primo Global Stocktake (GST) è di particolare significato. E’ l’unicO GST che conta per garantire che possiamo ancora limitare il riscaldamento globale a 1,5° C. La bozza di testo che ci avete presentato contiene molti elementi positivi. Vediamo forti riferimenti alla scienza integrati da un chiaro percorso con tappe fondamentali per rafforzare gli sforzi delle parti volti a preparare e presentare Nationally Determined Contributions (NDC) rafforzati fino al 2025. Accogliamo con favore anche l’istituzione del programma di implementazione della tecnologia. Questi elementi sono importanti».
Ma la domanda che si sono posti i Paesi AOSIS è se questi elementi siano sufficienti e la Rasmussen ha fatto notare che «Analizzando i paragrafi 26-29 di questo progetto di decisione siamo giunti alla conclusione che la necessaria correzione di rotta non è stata ancora ottenuta. Abbiamo fatto un progresso incrementale rispetto al business as usual, quando ciò di cui avevamo veramente bisogno è un cambiamento esponenziale nelle nostre azioni e nel nostro supporto».
Poi la critica si è fatta punualmente implacabile. «Signor Presidente, nel paragrafo 26 non vediamo alcun impegno e nemmeno un invito per le parti a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025. Facciamo riferimento alla scienza in tutto il testo e anche in questo paragrafo, ma poi ci asteniamo da un accordo per intraprendere le azioni pertinenti in per agire in linea con ciò che la scienza dice che dobbiamo fare. Non è sufficiente fare riferimento alla scienza e poi stipulare accordi che ignorano ciò che la scienza ci dice che dobbiamo fare. Questo non è un approccio che dovremmo essere chiamati a difendere».
Riguardo al paragrafo 28, I paesi AOSIS si sono detti estremamente preoccupati che non soddisfi quel di cui abbiamo bisogno: «Nel comma 28 (d) l’attenzione esclusiva ai sistemi energetici è deludente. Siamo preoccupati che i paragrafi 28 (e) e (h) ci portino potenzialmente indietro piuttosto che avanti. Al punto (e) ci viene chiesto di sostenere tecnologie che potrebbero comportare azioni che minano i nostri sforzi. Nel sub par (h) vediamo una litania di scappatoie. Non consente l’eliminazione graduale dei sussidi e non ci fa avanzare oltre lo status quo».
E la Rasmussen ha ricordato anche che «Abbiamo chiesto più volte che il paragrafo 11 fosse spostato nel preambolo per essere in linea con l’Accordo di Parigi. Non vogliamo rinegoziare l’Accordo di Parigi. Questa ragionevole richiesta è stata ignorata. AOSIS non considera che il paragrafo 11 abbia alcun effetto sugli obblighi e sui benefici contenuti nell’Accordo di Parigi e nella Convenzione sulle circostanze particolari dei SIDS e dei Paesi meno sviluppati».
La rappresentante delle Samoa ha chiuso tra gli applausi scroscianti di una platea che evidentemente era stata costretta a ingoiare molti rospi: «Dobbiamo partire da qui con una serie di decisioni che rispondano all’entità della crisi climatica, che soddisfino le aspettative che il mondo ha nei nostri confronti e che soddisfino ciò che è necessario per garantire il futuro delle generazioni future». Poi si è concessa un pianto liberatorio che speriamo non sia anche un pianto per un’occasione mancata per l’umanità e per il nostro pianeta vivente.
Il fermo discorso della Rasmussen rispecchia la delusione di molte associazioni ambientaliste per un’occasione nuovamente mancata e, subito dopo la pubblicazione del documento finale, Harjeet Singh, capo della strategia politica globale del Climate Action Network International, ha dichiarato a UN News: «Dopo decenni di evasione, la COP28 ha finalmente messo in luce i veri colpevoli della crisi climatica: i combustibili fossili. E’ stata stabilita una direzione attesa da tempo per allontanarsi dal carbone, dal petrolio e dal gas. Ma la risoluzione è viziata da scappatoie che offrono all’industria dei combustibili fossili numerose vie di fuga, facendo affidamento su tecnologie non provate e non sicure. C’è poi l’ipocrisia delle nazioni ricche (…) che continuano ad espandere in maniera massiccia le attività legate ai combustibili fossili, mentre si limitano a sostenere formalmente la transizione verde. I Paesi in via di sviluppo ancora dipendenti dai combustibili fossili sono lasciati senza solide garanzie per un adeguato sostegno finanziario nella loro transizione urgente ed equa verso le energie rinnovabili. Sebbene questa COP abbia riconosciuto l’immenso deficit finanziario nell’affrontare gli impatti climatici, i risultati finali sono deludenti e non riescono a costringere le nazioni ricche ad adempiere alle proprie responsabilità finanziarie».