I 10 Paesi più affamati del mondo emettono appena lo 0,08% della CO2 globale
«Il cambiamento climatico non è solo una crisi sanitaria globale, è una crisi morale»
[6 Agosto 2019]
Mentre gli scienziati dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) riuniti a Ginevra stanno per pubblicare -l’8 agosto – il nuovo Special Report on Climate Change and Land, (8 agosto), Christian Aid pubblica un altro rapporto, “Hunger Strike: The Climate & Food Vulnerability Index”, che dimostra che «I cambiamenti climatici stanno avendo un impatto sproporzionato sui sistemi alimentari dei Paesi meno responsabili delle cause della crisi climatica».
Tutte le anticipazioni lasciano prevedere che il rapporto Ipcc dimostrerà come i cambiamenti climatici influiranno sull’offerta alimentare globale, facendo aumentare i prezzi e riducendo il cibo a disposizione dei più poveri. È inoltre probabile che, s si vuole proteggere davvero la sicurezza alimentare globale, l’Ipcc raccomandi ai Paesi di tutto il mondo di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra.
Ma il nuovo rapporto di Christian Aid evidenzia una insostenibile ingiustizia climatica ed economica: «I primi 10 paesi con maggior insicurezza alimentare producono tutti meno di mezza tonnellata di CO2 per persona e solo lo 0,08% delle emissioni globali di carbonio. Nel frattempo, i paesi che hanno bloccato l’adozione dei recenti rapporti scientifici dell’Ipcc in occasione dei meeting Onu: Russia (12,2 tonnellate), Usa (15,7) e Arabia Saudita (19,4) hanno tutti enormi impronte di carbonio pro capite».
In testa al Climate & Food Vulnerability Index c’è il piccolo Stato africano del Burundi che è anche il Paese del mondo tra i 113 presi in considerazione con le emissioni pro capite di CO2 più basse: solo 0,027 tonnellate.«E’ una cifra così bassa – dicono a Christian Aid – che spesso viene arrotondata a zero. Questo significa che un russo in media produce la stessa CO2 di 454 burundesi, un americano di 581 e un saudita di 719. Nel Regno Unito un britannico medio genera la stessa CO2 di 212 burundesi». Oltre al Burundi, nel top ten del Paesi più poveri che emettono meno CO2 ci sono: Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Yemen, Sierra Leone, Ciad, Malawi, Haiti, Niger e Zambia.
Nel The Climate and Food Vulnerability Index l’Italia è 91esima. con un indice di insicurezza alimentare di 76,3 punti e con 6.085 tonnellate di emissioni di CO2 pro-capite che pongono gli italiani al 35esimo posto tra gli esseri umani più inquinanti del mondo.
Secondo Philip Galgallo, country director di Christian Aid per il Burundi, «Il Burundi è una testimonianza vivente dell’ingiustizia della crisi climatica. Nonostante non produca quasi nessuna emissione di carbonio, si trova ci troviamo in prima linea nei cambiamenti climatici, perché soffre per le temperature più elevate, rese agricole più basse e piogge sempre più inaffidabili. In un mondo giusto i nostri problemi sarebbero qualcosa che potremmo affrontare noi stessi. Ma poiché non abbiamo causato questa crisi climatica, da soli non possiamo risolverla. Se vogliamo frenare i danni del cambiamento climatico e invertire i suoi effetti, abbiamo bisogno che i Paesi più ricchi e più inquinanti riducano rapidamente le loro emissioni. A causa della natura globale dei cambiamenti climatici, questa è un’opportunità per il mondo di agire insieme in solidarietà ed equità. Abbiamo un grande potenziale per l’energia pulita ma, supporto per sbloccarlo, abbiamo bisogno di finanziamenti e. Abbiamo risorse rinnovabili di eolico e solare con le quali possiamo alimentare il nostro sviluppo ma non abbiamo le risorse finanziarie o la tecnologia per sfruttarle. E’ fondamentale che i governi dei Paesi sviluppati seguano gli avvertimenti degli scienziati delle Nazioni Unite e riducano urgentemente le loro emissioni. Lo richiedono le vite di milioni di persone più povere».
Katherine Kramer, global climate lead di Christian Aid e autrice del rapporto con Joe Ware, sottolinea che «Sebbene le azioni personali siano importanti per ridurre le emissioni, è stata l’azione dei governi e delle grandi imprese che devono fare di più perché avvenga. Questo rapporto delinea in modo netto la disuguaglianza globale dei cambiamenti climatici e in che modo chi è più vulnerabile contribuisce meno al problema e ne soffra di più. Questo è il motivo per cui dobbiamo vedere riduzioni rapide e radicali delle emissioni nei Paesi più ricchi e ad emissioni elevate, ponendo per sempre fine all’era alimentata dai fossili. Inoltre, questi Paesi devono fornire supporto finanziario e nuove tecnologie per aiutare i Paesi più poveri a svilupparsi in modo pulito e diventare resilienti agli impatti climatici esistenti e futuri».
Commentando il rapporto Doreen Stabinsky, che insegna politica ambientale globale al College of the Atlantic nel Maine, ha detto che «I cambiamenti climatici rappresentano enormi minacce per la nostra capacità di nutrirci. I più poveri e vulnerabili stanno attualmente soffrendo di più per gli impatti sulla produzione alimentare e già molti in tutto il mondo stanno migrando dalle loro case per poter nutrire le loro famiglie. Questi sono segnali di pericolo che tutti noi ignoriamo a nostro rischio e pericolo, poiché l’agricoltura è in definitiva uno dei settori economici più minacciati ed è fondamentale per il corretto funzionamento delle nostre società e delle nostre comunità. Sia il rapporto Christian Aid che il prossimo Special Report on Climate Change and Land dell’Ipcc iniziano a chiarire quanto sia grave la minaccia e quanto urgentemente dobbiamo agire».
Christian Aid ricorda che solo a luglio lo studio “Combining the effects of increased atmospheric carbon dioxide on protein, iron, and zinc availability and projected climate change on global diets: a modelling study”, pubblicato su The Lancet Planetary Health «Ha dimostrato che nei prossimi 30 anni i cambiamenti climatici, insieme all’aumento dell’anidride carbonica, potrebbero ridurre significativamente la disponibilità di nutrienti essenziali come proteine, ferro e zinco».
Uno degli autori di quello studio, Samuel Myers, ricercatore capo al Department of environmental health dell’università di Harvard ha dichiarato: «La nostra ricerca mostra che le crescenti concentrazioni di CO2 nell’atmosfera stanno riducendo la qualità nutrizionale del cibo che mangiamo e che le persone più vulnerabili a questi impatti sono quelle meno responsabili dell’aumento delle concentrazioni globali di CO2. Ciò che è emerso abbastanza chiaro, da questa e da altre ricerche, è che il cambiamento climatico non è solo una crisi sanitaria globale, è una crisi morale».