Il cambiamento climatico porta ad una rapida comparsa di malattie infettive
Il salto dei parassiti da una specie all’altra avviene più rapidamente del previsto
[18 Febbraio 2015]
Nello studio “Evolution in action: climate change, biodiversity dynamics and emerging infectious disease”, pubblicato su Philosophical Transactions of the Royal Society B, Eric Hoberg, dell’Agricultural Research Service Usa, e Daniel Brooks, dell’università del Nebraska–Lincoln, scrivono che «Le variazioni climatologiche e della perturbazione ecologica sono stati i drivers pervasivi dell’insieme faunistico, della struttura e la diversificazione dei parassiti e degli agenti patogeni». Questi eventi ricorrenti di colonizzazione, avvenuti nel tempo e nello spazio sulla Terra, hanno portato a cambiamenti in diversi contesti climatici e ambientali che, insieme ai meccanismi ecologici, sono stati spesso fattori determinanti di diversificazione dei parassiti.
Uno zoologo dell’università del Nebraska–Lincoln, Harold Manter, è convinto che «La comparsa di malattie infettive in nuovi luoghi e nuovi ospiti, come il virus del Nilo occidentale ed Ebola, è il risultato prevedibile del cambiamento climatico». Brooks avverte che «Gli uomini devono aspettarsi un aumento di queste malattie che emergeranno in futuro, mentre il cambiamento climatico sposta gli habitat e porta la fauna selvatica, le colture, il bestiame e gli esseri umani in contatto con patogeni ai quali sono suscettibili, ma ai quali non sono mai stati esposti».
Brooks, riferendosi ad un film di fantascienza 1971 su un agente patogeno mortale, spiega: «Non è che non ci sarà un “Andromeda Strain ‘che spazzerà via tutti sul pianeta. Ci potrebbero essere un sacco di epidemie localizzate che metteranno molta pressione sui nostri sistemi sanitari medici e veterinari. Non ci saranno abbastanza soldi per tenere il passo con tutto questo. Sarà la “morte dei mille tagli”».
Brooks ed Hoberg, hanno studiato sul terreno come il cambiamento climatico abbia influenzato molti ecosistemi diversi. Il lavoro di Brooks si è concentrato principalmente sui parassiti tropicali, mentre Hoberg ha lavorato principalmente nelle regioni artiche ed entrambi hanno osservato l’arrivo di specie che precedentemente non vivevano in quelle aree, mentre hanno visto altre specie andare via. In un’intervista Brooks ha sottolineato che «Negli ultimi 30 anni, i posti nei quali abbiamo lavorato sono stati fortemente influenzati dal cambiamento climatico. Anche se io ero nei tropici e lui nell’Artico, abbiamo potuto vedere che qualcosa stava accadendo».
Ade esempio, negli ultimi anni alcuni vermi parassiti si sono trasferiti a nord e nell’Artico canadese e si sono spostati dai loro ospiti tradizionali, i caribù, ai buoi muschiati. Gli scienziati hanno anche osservato che i cambiamenti climatici nel tardo Pliocene e nel Quaternario hanno portato a nord nuove specie di gopher dalle tasche (Geomyidae), insieme ai pidocchi che li infestano.
Scendendo più a sud, in alcune zone della Costa Rica, le scimmie urlatrici (nella foto) sono infettate da parassiti che prima infettavano solo le scimmie cappuccino e le scimmie ragno. Quando gli esseri umani hanno cacciato tutti i cappuccini e le scimmie ragno dalla regione, i parassiti sono subito passati alle scimmie urlatrici, che sono diventate il loro nuovo ospite.
Ma per più di 100 anni, visto il modo in cui parassiti ed ospiti co-evolvono, gli scienziati hanno ipotizzato che i parassiti non saltassero rapidamente da una specie all’altra. E’ quello che Brooks chiama il “paradosso del parassita”: nel corso del tempo, ospiti e agenti patogeni si adattano più strettamente l’uno all’altro. Secondo le teorie precedenti, questo dovrebbe rendere raro l’emergere di nuove malattie, perché dovrebbe prima verificarsi una mutazione casuale. Ora si scopre che questi salti avvengono più rapidamente del previsto ed che «Anche gli agenti patogeni che sono altamente adattabili ad un ospite, nelle giuste circostanze, sono in grado di passare a nuovi ospiti».
Brooks e Hoberg chiedono un «Cambiamento concettuale fondamentale, riconoscendo che i parassiti e i patogeni mantengono le capacità genetiche che permettono loro di passare rapidamente a nuovi ospiti».
Brooks evidenzia: «Anche se un parassita può avere un rapporto molto specializzato con un particolare ospite in un particolare luogo, ci sono altri ospiti che possono essere altrettanto sensibili. Infatti, i nuovi ospiti sono più suscettibili alle infezioni e ad ammalarsi, perché non hanno ancora sviluppato una resistenza. Anche se la resistenza si può evolvere abbastanza rapidamente, questo trasforma solo il patogeno emergente da un problema di malattia acuta ad un problema cronico. Il virus del Nilo occidentale è un buon esempio di questo fenomeno: in Nord America non è più un problema di malattia acuta per gli esseri umani o gli animali selvatici, è qui per restarci comunque. La risposta, è una maggiore collaborazione tra le comunità della sanità pubblica e veterinaria e la comunità dei “musei”: i biologi che studiano e classificano le forme di vita e come si evolvono. Oltre a trattare casi umani di una malattia emergente ed a sviluppare un vaccino per questo, gli scienziati possono capire quali siano le specie non umane che trasportano il virus. Conoscere la distribuzione geografica e il comportamento dei serbatoi non umani del virus potrebbe portare a strategie di salute pubblica basate sulla riduzione del rischio di infezione, riducendo al minimo il contatto umano con gli animali infetti, molto simili a quelle che ha ridotto l’incidenza della malaria e la febbre gialla, riducendo il contatto umano con le zanzare».
Gli scienziati dei musei, esperti nel comprendere le relazioni evolutive tra le specie, potrebbero utilizzare queste conoscenze per prevenire i rischi che un patogeno sui installi al di fuori del suo areale di distribuzione originario.
Brooks, pur essendo in pensione, lavora anche la Universidade Federal do Parana, in Brasile, finanziato dal programma Ciencias sem Fronteiras del governo brasiliano, e per l’università ungherese di Debrecen University in Ungheria e nello studio pubblicato nel numero speciale di Philosophical Transactions of the Royal Society B, intitolato “Climate change and vector-borne diseases of humans,” curato da Paul Parham, un noto epidemiologo dell’Imperial College di Londra, conclude: «Dobbiamo ammettere che non stiamo vincendo la guerra contro le malattie emergenti. Non le stiamo prevenendo. Non stiamo prestando attenzione alla loro biologia di base, da dove potrebbero provenire i potenziali nuovi agenti patogeni che si potrebbero introdurre».