Legambiente: «L’Italia deve subito invertire la rotta con un ambizioso Piano Nazionale Clima-Energia in grado di ridurre le emissioni del 65% entro il 2030 in coerenza con l’obiettivo di 1.5° C»

Italia in picchiata nel Climate Change Performance Index 2024. Scende dal 29°al 44°posto

Prime Danimarca, Estonia e Filippine, ultimi Emirati Arabi Uniti, Iran e Arabia Saudita

[8 Dicembre 2023]

Dalla classifica del  rapporto annuale “Climate Change Performance Index 2024” sulla performance climatica dei principali paesi del pianeta, presentato oggi alla COP28 Unfccc in corso a Dubai da Germanwatch,  CAN e NewClimate Institute  – e realizzato in collaborazione con Legambiente per l’Italia – preoccupa il grande passo indietro dell’Italia che scende dal 29esimo al 44esimo posto della classifica, perdendo ben 15 posizioni.

Legambiente spiega che si tratta di «Un risultato raggiunto soprattutto per il rallentamento della riduzione delle emissioni climalteranti (37° posto della specifica classifica) e per una politica climatica nazionale (58° posto della specifica classifica) fortemente inadeguata a fronteggiare l’emergenza. Infatti, l’attuale aggiornamento del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) consente un taglio delle emissioni entro il 2030 di appena il 40.3% rispetto al 1990. Un ulteriore passo indietro rispetto al già inadeguato 51% previsto dal PNRR». 

Secondo il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani, «Serve una drastica inversione di rotta. L’Italia può colmare l’attuale ritardo e centrare l’obiettivo climatico del 65%, in coerenza con l’obiettivo di 1.5°C, grazie soprattutto al contributo dell’efficienza energetica e delle rinnovabili. Secondo il Paris Compatible Scenario elaborato da Climate Analytics, il nostro Paese è in grado di ridurre le sue emissioni climalteranti di almeno il 65% grazie al 63% di rinnovabili nel mix energetico ed al 91% nel mix elettrico entro il 2030. E così arrivare nel 2035 al 100% di rinnovabili nel settore elettrico, confermando l’uscita dal carbone entro il 2025 e prevedendo quella dal gas fossile entro il 2035. In questo modo sarà possibile raggiungere la neutralità climatica già nel 2040».

Potenzialità confermate da Elettricità Futura che nel suo piano prevede l’84% di rinnovabili nel mix elettrico entro il 2030 con 85 nuovi GW installati, insieme alla realizzazione di 80 GWh di nuova capacità di accumulo di grande taglia, in grado di ridurre le importazioni di gas fossile di ben 20 miliardi di m3. Con benefici davvero importanti per l’economia, la società e l’ambiente. Si tratta di 320 miliardi di euro di investimenti cumulati al 2030 del settore elettrico e della sua filiera industriale, 360 miliardi di benefici economici cumulati al 2030 in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, 540 mila di nuovi posti di lavoro (che si aggiungono agli attuali 120 mila) e una riduzione nel 2030 di almeno il 75% delle emissioni di CO2 del settore elettrico rispetto ai livelli del 1990.

A tutto questo si aggiungerebbe la possibilità di ridurre entro il 2030 di ben 160 miliardi di m3 le importazioni di gas fossile con un risparmio di 110 miliardi di euro. E le imprese sono pronte a fare ancora di più per centrare l’obiettivo del 100% di elettricità rinnovabile entro il 2035, come dimostrano le 5.054 richieste di connessione a Terna per 317,7 GW e gli oltre 1.300 progetti in attesa di valutazione. A cui si aggiunge il contributo delle Comunità Energetiche Rinnovabili che uno studio Elemens per Legambiente stima in almeno 17 GW entro il 2030. Solo così sarà possibile vincere la sfida della duplice crisi, energetica e climatica, che rischia di mettere in ginocchio l’Italia.

Il rapporto prende in considerazione la performance climatica di 63 Paesi, più l’Unione Europea nel suo complesso, che insieme rappresentano oltre il 90% delle emissioni globali. La performance è misurata, attraverso il Climate Change Performance Index (CCPI), prendendo come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030. Il CCPI si basa per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo sia delle rinnovabili che dell’efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.

Anche quest’anno le prime tre posizioni della classifica non sono state attribuite, «In quanto nessuno dei Paesi ha raggiunto la performance necessaria per contribuire a fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5° C». con il quarto posto Si conferma in testa alla classifica  la Danimarca, grazie soprattutto alla significativa riduzione delle emissioni climalteranti ed allo sviluppo delle rinnovabili. Seguono Estonia (5°) e Filippine (6°) che rafforzano la loro azione climatica nonostante le difficoltà economiche.

Uno degli autori del CCPI, Jan Burck di Germanwatch, evidenzia che «Alcuni Paesi ottengono buoni risultati in singole categorie, ma nessun Paese ottiene costantemente risultati “alti” o “molto elevati”. La media semplicemente non è sufficiente per un percorso fino a 1,5 gradi. I Paesi devono basarsi sulle misure e sugli obiettivi esistenti e moltiplicare i propri sforzi. In questo senso la COP28 gioca un ruolo cruciale. Una decisione vincolante di triplicare la capacità di energia rinnovabile, raddoppiare l’efficienza energetica e ridurre drasticamente l’uso di carbone, petrolio e gas fino al 2030 potrebbe aprire la strada a un percorso in linea con gli obiettivi climatici di Parigi».

Il coautore Niklas Höhne del NewClimate Institute aggiunge:«Vediamo due sviluppi contrastanti: da un lato il boom delle energie rinnovabili e il continuo aggiornamento da parte dei governi dei propri obiettivi in ​​materia di energie rinnovabili. D’altro canto, l’elaborazione delle politiche climatiche in generale ha subito un rallentamento. Per la prima volta, nessun paese si colloca “in alto” nella categoria politica climatica. Anche in paesi con politiche climatiche relativamente ambiziose, come la Danimarca, dove l’azione per il clima si è quasi interrotta dalle elezioni nazionali dell’ottobre 2022. Ciò minaccia gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni per il 2025 e il 2030».

In fondo alla classifica ci sono Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili: Canada (62°). Russia (63°),  Emirati Arabi Uniti (65°), Iran (66°) e Arabia Saudita (67°). Gli Emirati Arabi Uniti, che ospitano la COP28 Unfccc, sono uno dei Paesi con i risultati più bassi. La performance degli Emirati delude in 3 categorie su 4, in particolare le elevate emissioni pro capite (25,9 tonnellate) e la bassa quota di energie rinnovabili (meno dell’1%).

Janet Milongo  di Climate Action Network International, sottolinea che «Il CCPI mostra ancora una volta che i maggiori produttori ed esportatori di combustibili fossili sono i peggiori dell’indice. Questo giustifica adeguatamente le richieste di eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili, in modo rapido e per sempre e finanziato, senza spazio per distrazioni pericolose. Tutti gli Stati dovrebbero concentrare tutti i loro sforzi e i loro finanziamenti verso l’implementazione di sistemi di energia rinnovabile fino al 100% in modo giusto, equo e rapido».

La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, rimane al 51° posto del CCPI del 2023 e i redattori del rapporto commentano che «Nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili ed il miglioramento dell’efficienza energetica, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone».

Invece gli Stati Uniti d’America, secondo emettitore globale, si posizionano al 57° posto, un passo indietro di cinque pozioni rispetto alla precedente edizione del CCPI, un calo dovuto all’ancora scarsa attuazione delle misure previste dall’Inflation Reduction Act, che destina un considerevole sostegno finanziario per l’azione climatica.

Solo tre membri del G20, India e Germania (14°) insieme all’Unione Europe (16°), sono nella parte alta della classifica. La maggior parte dei Paesi del G20, invece, si posiziona nella parte bassa. Mentre Canada (62°), Russia (63°), Corea del sud (64°) ed Arabia Saudita (67°) sono i Paesi del G20 con la peggiore performance climatica. L’India, il Paese più popoloso del mondo, si colloca al 7° posto nella CCPI di quest’anno, principalmente a causa delle emissioni pro capite relativamente basse e del basso consumo energetico pro capite. C’è stata un’espansione positiva delle rinnovabili, ma il Paese rimane fortemente dipendente dal carbone. «L’India deve aumentare la propria quota di energia rinnovabile e ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Gli obiettivi rinnovabili dell’India per il 2030 rimangono troppo bassi», dice Höhne.

Tuttavia, un Paese del G20 è migliorato in modo significativo, diventando uno dei migliori climber: il Brasile scala ben 15 posizioni raggiungendo il 23° posto. «Come previsto – commentano i ricercatori – il cambio della presidenza brasiliana ha avuto un impatto positivo. Sotto il presidente Lula, il Brasile sta perseguendo una politica climatica più progressista, sia a livello internazionale che nazionale. Tuttavia, gli esperti del paese sottolineano che il Brasile, allo stesso tempo, sta ancora espandendo la produzione di combustibili fossili e potrebbe non raggiungere i suoi obiettivi climatici». Per Burck, «Gli sviluppi in Brasile sono promettenti, ma il G20 nel suo insieme deve accelerare in modo significativo l’espansione delle energie rinnovabili ed eliminare gradualmente tutti i combustibili fossili il prima possibile. Il G20 ha una responsabilità speciale per quanto riguarda gli elevati livelli di ambizione climatica, poiché rappresenta circa l’80% delle emissioni globali di gas serra».

Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente, conclude: «Nonostante il boom delle rinnovabili, la corsa contro il tempo continua. Entro il 2030 le emissioni globali vanno quasi dimezzate, grazie soprattutto alla riduzione dell’uso dei combustibili fossili. Alla COP28 in corso a Dubai, pertanto, è cruciale raggiungere un accordo ambizioso che preveda di triplicare la capacità installata di energia rinnovabile, raddoppiare l’efficienza energetica ed avviare da subito il phasing-out delle fossili. Solo così sarà possibile una drastica riduzione entro il 2030 dell’utilizzo di carbone, gas e petrolio, mantenendo ancora vivo l’obiettivo di contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5° C».