La crisi politica e sociale nel Venezuela del cambiamento climatico
Siccità, cultura estrattivista e maledizione del petrolio: un cocktail letale che produce profughi
[21 Febbraio 2019]
La tragica crisi venezuelana è sicuramente il risultato della fine della spinta propulsiva del socialismo petrolifero finito nelle mani di Nicolás Maduro, un presidente privo del vulcanico carisma di Hugo Chavez, del boicottaggio statunitense, di una opposizione di destra che non ha mai nascosto tentazioni golpiste, di una comunità internazionale che si strappa le vesti per le violazioni dei diritti politici a Caracas ma le ignora quando avvengono in maniera anche più pesante in Honduras o Guatemala, che dice che non si può permettere che immense riserve petrolifere vengano gestite da un regime illiberale e intanto fa lucrosi affari petroliferi e vende armi alle monarchie assolute del Golfo che fanno sembrare il Venezuela di Maduro ò un campione dei diritti umani… La crisi del Venezuela è tutto questo e molto altro, un groviglio inestricabile che ha trasformato un decimo della popolazione del Paese in rifugiati, e i cambiamenti climatici non sono certo un argomento del quale si discute. Eppure, secondo quanto scrive Jean Chemnick in un articolo su E&E News ripreso da Climatewire, i cambiamenti climatici hanno parecchio a che fare con il precipitare della crisi venezuelana e ne sarebbero lo sfondo.
Per gran parte degli ultimi 10 anni il Venezuela ha subito una grave e persistente siccità, un evento che secondo gli scienziati diventerà sempre più frequente nel nord dell’America meridionale a causa del riscaldamento globale. Dagli anni ’90 in poi il Venezuela ha visto scomparire 4 dei suoi 5 ghiacciai e ha dovuto spesso razionare l’energia elettrica, visto che questo Paese petrolifero dipende energeticamente da dighe idroelettriche sempre più vuote.
Eppure né i think tanks statunitensi né l’International organization for migration (Oim) dell’Onu si sono mai posti il problema di quale ruolo avrebbe potuto avere il riscaldamento che ha colpito il Venezuela nella creazione della tragedia umanitaria che è sotto gli occhi di tutti. L’Iom ha risposto a E & E News: «Non abbiamo informazioni o studi su questo», però da anni l’agenzia Onu ha evidenziato le conseguenze sociali ed economiche del calo del prezzo del su un’economia dipendente dal greggio controllato dal governo, e ha indicato nella corruzione e nella cattiva gestione dell’impresa petrolifera di Stato una delle principali cause della fuga dei venezuelani dal Paese. Il 30 gennaio Trump ha twittato: «Dal 2015, più di 3 milioni di persone sono fuggite dal Venezuela. Le Nazioni Unite stimano che il numero potrebbe aumentare a 5,3 milioni entro la fine del 2019», La popolazione del Venezuela supera di poco i 30 milioni.
Ma la crisi politica di un Venezuela diviso in due rischia di oscurare la crisi climatica in corso: nel Paese c’è stato un calo di precipitazioni dal 55 al 65% rispetto alla media annuale del periodo 2013 – 2016, il che ha portato a un razionamento dell’acqua e dell’energia elettrica. L’inverno particolarmente secco del 2016/2017 ha fatto scendere al minimo il livello della diga di Guri a Bolivar, il più grande impianto idroelettrico del Venezuela, portando a mesi di carenza di energia a Caracas e in altre città, con interruzioni di corrente obbligatorie durante i tre giorni dei weekend.
Cosa che ha fatto ulteriormente arrabbiare una classe media già provata dalle politiche di Maduro e dal declino dei prezzi globali del petrolio, che ha ridotto fortemente la produzione agricola e peggiorato la vita della gente comune, anche degli elettori bolivaristi di Maduro.
Oliver-Leighton Barrett, un ricercatore del Center for Climate and Security, ha scritto recentemente in un rapporto: «Anche se è necessario fare molta più ricerca per stimare quanto di questa crisi umanitaria sia stata esacerbata dalla siccità, quel che è ovvio è che l’insufficiente processo decisionale del governo del Venezuela in previsione e in risposta alla scarsità idrica ha contribuito significativamente al fatto che milioni di venezuelani lasciano la loro patria in cerca di vite migliori negli Stati confinanti».
Il caos del Venezuela dimostra che la relazione tra cambiamento climatico e instabilità non è sempre semplice. Anche il vicino Brasile ha affrontato gravi periodi di siccità negli ultimi anni e Barrett suggerisce che «La penuria idrica nel 2014 e nel 2015 potrebbe aver aggravato l’insoddisfazione verso la ex presidente Dilma Rousseff prima del suo impeachment del 2015». Ma i brasiliani non stanno fuggendo dal loro Paese come i venezuelani.
Già nel settembre 2018 Andrew Holland, direttore operativo dell’American Security Project aveva detto a Climatewire che «Quando le agenzie di sicurezza e difesa nazionali definiscono il cambiamento climatico un “moltiplicatore di minacce”, questo è ciò che intendono dire. Il cambiamento climatico non sarà mai l’unica cosa che causa una guerra o che fa cadere un governo o che porta alla migrazione, ma è un fattore che rende tutti gli altri fattori più difficili Fa peggiorare gli altri problemi». Holland ha accusato Maduro di aver causato la crisi dei profughi per la sua incapacità di rispondere adeguatamente alla siccità: «Le persone se ne vanno perché è uno Stato fallito, ma uno dei sintomi dell’essere uno stato fallito è che non in grado di adattarsi a questi cambiamenti che avvengono nel suo io ambiente». Nonostante Chavez avesse visto il pericolo che avanzava prosciugando dighe vitali (senza però far molto), Maduro negli ultimi anni non ha rafforzato abbastanza la capacità alla rete elettrica per consentirgli di far fronte al calo di produzione delle sue dighe idroelettriche. Holland fa notare che «Invece di usare le sue risorse di combustibile fossile per sostenere la sua offerta interna, la compagnia petrolifera e del gas statale spreca gas attraverso il flaring».
Così i venezuelani sono fuggiti in Colombia, Brasile, Ecuador, Perù e nei Paesi dei Caraibi, dove sono entrati in competizione per il già scarso lavoro e per le risorse locali. E il cambiamento climatico svolge un ruolo in tutta questa storia. Come spiega a Chemnick Steve Brock, consulente senior del Council on Strategic Risks, «Queste persone che si stanno spostando stanno stressando ulteriormente un sistema molto fragile che era già diventato fragile a causa dei cambiamenti climatici». Anche alcune aree della Colombia e del Brasile dove si sono rifugiati i venezuelani hanno sofferto la siccità e i nuovi arrivati stanno facendo aumentare la richiesta di risorse idriche. Già nell’aprile 2018, Dan Stothart, che si occupa di problemi umanitari e regionali in America Latina e nei Caraibi per l’United Nations environment programme dell’Onu, denunciava che nello Stato brasiliano del Roraima i rifugiati venezuelani stavano contribuendo all’esaurimento delle falde acquifere».
Nei piccoli Stati insulari dei Caraibi sono arrivati meno profughi venezuelani, ma queste piccole nazioni non sono in grado di assorbirli e alcune si stanno ancora riprendendo dalla devastante stagione degli uragani del 2017 e anche loro stanno facendo i conti con una forte emigrazione ambientale verso l’estero. Holland ricorda che «A causa della vulnerabilità ai disastri naturali, questi sono alcuni dei Paesi più stressati del mondo a livello climatico».
L’afflusso dei venezuelani impoveriti dalla crisi può anche creare problemi ambientali nelle regioni in cui si stabiliscono, o possono persino contribuire al cambiamento climatico. Il Roraima si estende nell’Amazzonia brasiliana, è un pezzo del “polmone del pianeta” essenziale per assorbire e stoccare l’anidride carbonica, ma recentemente la deforestazione è nuovamente esplosa e Brock ha detto: «C’è la preoccupazione che, per guadagnarsi da vivere, i migranti in cerca di lavoro si rivolgano al disboscamento illegale o ad altre attività ambientalmente distruttive. Il Roraima è un hotspot dell’estrazione illegale, che contribuisce alla pericolosa contaminazione da mercurio», E Stothart ad aprile confermava denunciando «Le crescenti segnalazioni di migranti venezuelani e rifugiati costretti a sopravvivere con questa industria pericolosa».
Il Venezuela potrà cambiare davvero registro se dopo Madura verrà un governo che tagli con l’estrattivismo e punti sulla cooperazione internazionale e sulla lotta ai cambiamenti climatici. Temi che, va detto, non sembrano interessare molto l’opposizione neoliberista appoggiata dagli Usa, che punta alla privatizzazione del petrolio e che, prima di Chavez, non aveva mai dato segni di voler cambiare il paradigma economico predominante in Venezuela, sia nella versione “socialista” che “liberista”.
Le delegazioni del Venezuela alle Conferenze delle parti Unfccc hanno sempre sostenuto che è il Nord del pianeta ricco ad aver causato il riscaldamento globale e che quindi dovrebbe pagare i danni, ma intanto il petrolio nazionalizzato del Venezuela è considerato uno dei più sporchi del mondo: uno studio dell’Università di Stanford del 2018 ha stimato che sia in media 6 volte più ricco di carbonio del greggio saudita.
E’ su questo petrolio che vuole certamente mettere le mani Trump ma, come fa notare ancora Brock, «Il Venezuela non è solo vulnerabile al clima. Gli ultimi anni hanno anche mostrato i pericoli di fare affidamento sul petrolio per oltre un quarto del suo prodotto interno lordo. Una transizione globale che ci allontani dai combustibili fossili colpirebbe il Venezuela con la stessa durezza di qualsiasi altro Stato esportatore di petrolio nel mondo».
Paradossalmente Maduro e Trump condividono gli stessi nemici: gli ambientalisti, il movimento per disinvestire dal petrolio e la green economy. E un nuovo governo che nascesse con l’imprimatur di Trump difficilmente si comporterebbe diversamente.
L’unica speranza che il popolo Venezuela riprenda in mano il proprio destino affrancandosi dalla maledizione del petrolio, ripensando la sua cultura estrattivista, dal neocolonialismo e riscrivendo il futuro di un Paese con immense ricchezze naturali