L’impatto ambientale di una pagnotta di pane. Di chi è la responsabilità di intervenire?
Dai fertilizzanti per il grano il 43% delle emissioni di gas serra del pane
[28 Febbraio 2017]
Un team interdisciplinare di ricercatori del Grantham centre for sustainable futures dell’università di Sheffield ha analizzato l’intero processo di produzione del pane, dalla coltivazione, raccolta e macinazione del grano, alla produzione della faina fino alla cottura e al prodotto finale, pronto per essere venduto e i risultati pubblicati su Nature Plants dimostrano che «Il fertilizzante di nitrato di ammonio utilizzato nella coltivazione del grano contribuisce quasi alla metà (43%) delle emissioni di gas serra», molto di più di tutti gli altri procedimenti della catena produttiva del pane.
Liam Goucher, un ricercatore dell’università di Sheffield che ha partecipato allo studio, sottolinea che «I consumatori di solito non sono a conoscenza degli impatti ambientali incorporati nei prodotti che acquistano, in particolare nel caso dei prodotti alimentari, per i quali le principali preoccupazioni non vanno di solito oltre quelle la salute e il benessere degli animali. Forse, non c’è consapevolezza dell’inquinamento provocato dagli imballaggi in plastica, ma molte persone saranno sorprese degli impatti ambientali più ampi rivelati in questo studio. Abbiamo scoperto che ogni pagnotta incorpora il riscaldamento globale derivante da i fertilizzanti applicati nei campi degli agricoltori per aumentare il loro raccolto di grano. Questo deriva dalla grande quantità di energia necessaria per produrre il fertilizzante e dal gas di ossido di azoto rilasciato quando viene degradato nel suolo».
Una delle più grandi sfide che ha di fronte l’umanità in un mondo sempre più sovraffollato e è quella di come produrre sufficiente cibo sano e a buon mercato, tutelando allo stesso tempo l’ambiente e la biodiversità. Al Grantham centre for sustainable futures evidenziano che «Si stima che fino al 60% delle colture agricole siano ormai v coltivate utilizzando fertilizzanti. Anche se possono vantare una drastica crescita di piante e verdure – rifornendo la crescente domanda di cibo – i fertilizzanti sono costituiti da sostanze e prodotti chimici come metano, anidride carbonica, ammoniaca e azoto. Le emissioni di queste sostanze dai fertilizzanti sintetici contribuiscono ai gas serra».
Secondo un altro autore dello studio, Peter Horton FRS, ricercatore capo al Grantham centre for sustainable futures, «I nostri risultati mettono a fuoco una parte fondamentale della sfida della sicurezza alimentare: risolvere i maggiori conflitti interni al sistema agro-alimentare, il cui scopo primario è quello di fare soldi, non di garantire la sicurezza alimentare globale sostenibile. L’alta produttività agricola – necessaria per il profitto degli agricoltori, delle agro-imprese e dei rivenditori di generi alimentari, mentre mantiene anche bassi i prezzi per i consumatori – attualmente richiede alti livelli di applicazione di fertilizzanti relativamente a buon mercato. Con oltre 100 milioni di tonnellate di fertilizzanti utilizzate ogni anno a livello globale per sostenere la produzione agricola, questo è un problema enorme, ma l’impatto ambientale non è un costo all’interno del sistema e quindi non ci sono al momento non reali incentivi per ridurre la nostra dipendenza dai fertilizzanti. Come per raggiungere la sicurezza alimentare globale sostenibile non è solo una questione tecnica, ma è una questione di politica economica e richiede una ricerca interdisciplinare del genere di quella che facciamo qui a Sheffield».
Infatti, lo studio sull’impatto ambientale del pane è stato reso possibile da una pionieristica collaborazione con il mondo agricolo e l’industria alimentare sviluppata da Richard Bruce, un economista e co-autore dello studio e i dati analizzati sono stati elaborati utilizzandolo SCEnAT, un avanzato strumento di valutazione del ciclo di vita dei prodotti sviluppato da Lenny Koh, direttore dell’Advanced resource efficiency centre della Management School dell’università Sheffield, che spiega a sua volta: «Questo strumento gestisce grandi e complessi data sets e fornisce i dati sull’impatto ambientale, comprese le emissioni di gas serra di tutte le fasi della catena di approvvigionamento. Lo strumento identifica i processi che producono la maggior parte dell’ effetto: gli hotspot. I risultati sollevano una questione molto importante: di chi è la responsabilità dell’attuazione di questi interventi: del produttore di fertilizzanti, dell’agricoltore, del rivenditore o del consumatore? Per una serie di processi industriali, c’è un crescente riconoscimento della nozione di responsabilità estesa del produttore: il produttore è responsabile per l’impatto a valle, che viene ampliata all’idea della responsabilità del produttore condivisa dai consumatori. Il consumatore è fondamentale, se è persuaso a pagare di più per un prodotto più verde o facendo pressione per un cambiamento delle pratiche».
Lo studio evidenzia anche le soluzioni già disponibili che potrebbero potenzialmente ridurre gli impatti in futuro. Un altro degli autori, Duncan Cameron, del P3 centre for translational plant and soil science, conclude: «Il problema dei fertilizzanti è risolvibile attraverso il miglioramento delle pratiche agronomiche. Queste sfruttano il meglio della produzione biologica in combinazione con le nuove tecnologie, per monitorare meglio lo stato nutrizionale dei suoli e delle piante e per riciclare i rifiuti, con la promessa di nuove varietà di grano in grado di utilizzare l’azoto del suolo in modo più efficiente».