Perché la Cina ha proibito Under the Dome, il film anti-inquinamento (VIDEO)
Nel gigante asiatico dire che la lotta contro l'inquinamento è una "battaglia personale" è molto radicale
[16 Marzo 2015]
All’inizio di marzo, in un solo weekend, più di 175 milioni di cinesi hanno visto su YouTube “Under the Dome”, un documentario anti-inquinamento di 104 minuti, realizzato dall’ex giornalista ambientale Chai Jing, sull’inquinamento che sta avvelenando il loro Paese. L’interesse dell’opinione pubblica per tutto quel che riguarda lo smog venefico prodotto dalle centrali elettriche a carbone e dalle emissioni dei veicoli, si è trasformato così in un passa parola che ha portato alla visione di massa di un film “scomodo”, ma che il governo sembrava tollerare, fino a che, pochi giorni dopo, non ha ordinato ai media di «Sospendere assolutamente la copertura del documentario».
L’Ufficio che gestisce internet a Pechino ha inviato un comunicato ai siti nel quale era scritto: «Per favore rimuovere tutti i rapporti, i commenti e gli altri contenuti ” Under the Dome” di Chai Jing dalla home page e dalle pagine di news»: Ma un “invito” delle autorità cinesi è molto più che un invito, infatti il Beijing Internet Management Office aggiungeva che sarebbe intervenuto direttamente entro 5 minuti, quindi era meglio sbrigarsi…
Eppure, stranamente, appena uscito il documentario, il governo comunista cinese non lo aveva bloccato, anche se non metteva certo in buona luce il suo operato e smascherava di fatto molta della propaganda ambientale dei documenti ufficiali, anzi, il nuovo ministro della protezione dell’ambiente della Cina, Chen Jining, aveva elogiato “Under the Dome” perché rifletteva «La crescente preoccupazione pubblica per la tutela dell’ambiente e le minacce per la salute umana».
Perché allora è scattata la solita attitudine censoria del governo cinese dopo che il documentario di Chai Jing inizialmente era stato presentato come una svolta per la trasparenza nell’informazione ambientale? Secondo Robert Daly, direttore del Kissinger Institute on China and the United States, intervenuto ad un dibattito dopo la proiezione del film organizzata dal Wilson Center, «”Under the Dome” è stato vietato per la sua popolarità, non per il suo messaggio. Il film ha permesso di Chai Jing “controllare il discorso” riguardo ai gravi problemi dell’inquinamento atmosferico in Cina. La messa al bando di “Under the Dome” non è una negazione o il rifiuto delle preoccupazioni ambientali o delle tesi di Chai Jing da parte del governo cinese, ma un avvertimento che è il governo centrale che fissa la definizione dell’agenda e fornisce le soluzioni». Invece, secondo Daly, «Chai Jing t racconta la storia con una voce molto personale, e la sua affermazione che la lotta contro l’inquinamento atmosferico è una “battaglia personale” sono nozioni radicali in Cina. E’ consentito combattere battaglie personali di tale portata in Cina?»
Il film, pieno di grafici e supporti visivi, è stato paragonato da molti ad “An Inconvenient Truth,” dell’ex vice-presidente Usa e premio Nobel Al Gore , ma Chai aveva unmotivo molto personale per realizzare “Under the Dome”: la scarsa attenzione che aveva prestato all’inquinamento di Pechino fino a che non è rimasta in cinta nel 2013 e non ha scoperto con un’ecografia che sua figlia aveva un tumore benigno. Una delle cose che ha più impressionato i cinesi è quando la 39venne Chai dice nel documentario: «Prima, non avevo mai avuto paura dell’inquinamento e non avevo mai indossato una mascherina, non importa dove fossi. Ma quando si trasporta una vita dentro di sé, ciò che respira, mangia e beve è una vostra responsabilità, e quindi si ha paura».
Nel documentario Chai ricorda con sgomento quanto tempo ha passato a credere che l’inquinamento fosse solo nebbia e che una delle prime volte che si è resa conto che c’era «qualcosa di più della nebbia» è stato quando nel 2008 l’ambasciata Usa a Pechino ha iniziato a monitorare le concentrazioni di PM 2.5 ed a rendere i dati disponibili al pubblico. E’ così che i cinesi hanno scoperto che questo minuscolo particolato può entrare nei polmoni e provocare asma, malattie cardiache, diabete, malattie autoimmuni, lupus, e altri disturbi.
La cosa non è stata presa molto bene dal governo cinese, ma ora ha lanciato una campagna contro l’abbattimento delle PM2,5 ed a Pechino e nelle altre megalopoli fioccano allarmi rossi e arancioni per lo smog. Come ha evidenziato Daly, «Mentre la cosa più importante di questo film è che si tratta di una voce in lingua cinese in Cina, non dovrebbero essere trascurato le molte influenze occidentali evidenti nella produzione del film, che mette in cima ai suoi riferimenti le letture del PM 2,5 della Ambasciata degli Stati Uniti: Il documentario è anche nello stile di un TED Talk, si basa molto su dati NASA ed è stato paragonato al libro di Rachel Carson libro “Silent Spring” del 1962, che viene spesso indicato come l’avvio del movimento ambientalista negli Usa. E’ un lavoro nella tradizione dei programmi di video giornalismo come “60 Minutes”, ed ha anche il nome della serie televisiva americana “Under the Dome”. Questo è in parte un prodotto della politica statunitense di impegno con la Cina. Questo tipo di esposizione culturale ha un profondo impatto nel tempo».
“Under the Dome” confronta l’inquinamento della Cina dell’iper-capitalismo di Stato con quello di Los Angeles durante la “age of oil”, prima che gli Usa approvassero le leggi ambientali così come con il “Great Smog” che avvolgeva Londra fino alla metà del XX secolo. E Chai fa un’altra cosa che non deve essere piaciuta molto ai leader comunisti cinesi: spiega che anche il venefico inquinamento dell’aria delle due metropoli occidentali era il frutto di uno sviluppo industriale sfrenato, il problema è che la megalopoli urbana che da Pechino si irradia in una vastissima area della Cina nord-orientale è cresciuta ad un ritmo molto più rapido della Los Angeles del boom del petrolio e della Londra della rivoluzione industriale e che sta utilizzando molti più combustibili fossili rispetto a quei periodi di intensa crescita di Londra o Los Angeles
Fatti i loro conti, alla fine gli alti papaveri del Partito comunista cinese devono aver visto in “Under the Dome” una falla nella loro politica di sviluppo armonioso e di prosperità moderata che non può subire strappi di tipo “occidentale” e tanto meno fughe individualistiche. Per Daly, «La decisione del governo cinese di vietare il film per la sua popolarità è, in ultima analisi, dannosa per gli sforzi del Paese di essere una forza internazionale persuasiva e che riorienta l’attenzione dalle sfide acute di controllare l’inquinamento dell’aria alle domande standard sulla governance e la trasparenza. Quando gli stranieri esprimono rabbia per questo divieto, le autorità cinesi si arrabbiano di più per quel he vedono come un’ingerenza straniera. Si tratta di un ciclo che sta avvenendo da quando la Cina ha iniziato la modernizzazione 35 anni fa».
Ma la messa al bando di “Under the Dome” ha messo in cattiva luce il possibile ruolo di leader della Cina nei cruciali climate talks dell’Unfccc che a dicembre dovrebbero portare ad un accordo globale sul clima a Parigi che entrerà in vigore entro il 2020. E mette in dubbio anche le reali intenzioni – e soprattutto la trasparenza – della Cina riguardo all’accordo firmato a fine 2014 con gli Usa per limitare le emissioni di gas serra: gli Stati Uniti si sono impegnati a ridurre, entro il 2025 , le emissioni dal 26 al 28% rispetto ai livelli del 2005 e la Cina ha detto che entro il 2030 il 20% della sua energia proverrà da rinnovabili e nucleare e che entro lo stesso anno raggiungerà il picco delle emissioni di gas serra.