Chi sono i morti di Lampedusa. Ricordiamoci la storia italiana almeno nel giorno del lutto
La tragedia dei quei poveri morti è un dramma di storia italiana che parte dagli anni del fascimo
[4 Ottobre 2013]
Oggi è lutto nazionale ed il governo ha fatto bene ad accogliere l’invito di associazioni e partiti, finalmente interpreti di un moto di vergogna e pietà popolare, perché la tragedia dei poveri morti di Lampedusa è una storia italiana. Porta impressi i nomi dell’Eritrea e della Libia, i ricordi nebbiosi del nostro passato coloniale e la mediocrità di un Paese senza più politica estera, ridotta all’amicizia con Putin, ai baciamano a Gheddafi e ai complimenti ai dittatori ex sovietici per i loro successi elettorali.
Lampedusa non ha bare e terra per seppellire quelle centinaia di giovani morti senza nome, e il mondo non ha tombe per le decine di migliaia di scheletri sconosciuti che le correnti, i pesci e le reti dei pescatori hanno sparso per il Mediterraneo. Ma quelle ossa dimenticate e quella carne ormai fredda ingoiata a poche centinaia di metri dalla spiaggia dei Conigli, ci parlano di una storia dimenticata: quella del colonialismo straccione fascista e di un Paese che non ha saputo nemmeno fare una politica neocoloniale, figuriamoci (come ha ricordato ieri Romano Prodi a Gazebo) mantenere le promesse fatte ai G8, e con i G8.
Non è strano che la destra che ha voluto e scritto la Bossi-Fini, una legge che si dimostra ogni giorno tragicamente insensata e inadeguata, prima che inumana, dia la colpa di questa strage alla presidente della Camera Laura Boldrini e al ministro Cecilie Kyenge, al presunto buonismo del centro-sinistra? Non è strano perché questa destra si presenta ancora con la faccia xenofoba della Lega Nord e con quella cinicamente populista del berlusconismo, gente che nulla sa e nulla vuole sapere della maledizione che il fascismo ha impresso sulle nostre ex colonie, gente che vede nell’Africa solo un posto dove convertire i finanziamenti pubblici ai partiti in diamanti per il tesoretto di qualche tribù politica della Padania, o che scambia i destini di esseri umani in cammino con le oscene richieste di dittatori, che pesa la carne e il sangue in barili di petrolio o in briciole di un’egemonia culturale e politica che in Africa è da sempre nelle mani degli inglesi e dei francesi, e che ora è messa in pericolo da americani e cinesi.
Non è un caso se le colonie fasciste italiane, dove per primi abbiamo sperimentato le armi chimiche e bombardato villaggi e città, dove impiccavamo i patrioti e deportavamo interi popoli cantando allegramente Faccetta nera, hanno avuto lo stesso destino di disperazione e autoritarismo di quelle di altri fascismi, quello portoghese e spagnolo, passate da guerre di liberazione “marxiste-leniniste” a nuovi fascismi filo-occidentali, diventate cleptocrazie petrolifere o narco-Stati o Stati fantasma.
Come la Somalia, che dopo il colonialismo e il protettorato italiano consegnammo al carabiniere italiano Mohamed Siad Barre che, mentre gestiva un traffico di rifiuti tossici e di pesca abusiva con l’Italia, intascando tangenti da ridistribuire alla sua cricca, alle tribù fedeli e ai partiti italiani, mise il suo regime “socialista” al servizio dell’Urss. Poi, dopo la guerra dell’Ogaden con l’Etiopia (altra ex colonia italiana) soffocata dal Derg, il feroce regime militare-comunista di Mengistu Haile Mariam, passò armi e bagagli con gli americani, fino a che una rivolta di popolo non lo destituì frantumando la Somalia in sultanati clanici e in tre Stati: ciò che resta della Somalia ex italiana contesa tra il governo federale di Mogadiscio e le feroci milizie islamiste di Xarakada Mujaahidiinta Alshabaaba che qualche giorno fa hanno fatto strage in un supermercato di Nairobi; il Puntland da dove partono i pirati all’attacco di navi mercantili e panfili, terra del traffico di rifiuti tossici e di carne umana verso lo Yemen; il Somaliland, l’ex Somalia britannica e la più “stabile” delle “3 Somalie”, porta di uscita dell’immigrazione eritrea a sud.
Una storia della quale gli italiani non sanno praticamente niente, ignorata dai giornali, relegata in programmi da studiosi nottambuli della Rai, trasformata in folklore nostalgico o in ributtante cinismo dal Giornale o da Libero, ridotta a pietismo da spot pre-natalizio con il bimbo nero piangente o implorante dalle reti Fininvest.
Eppure è una storia italiana, stanno lì – nel nostro ex Impero Fascista per il quale cambiammo addirittura nome e calendario – le ragioni politiche ed economiche della strage di poveri cristi a Lampedusa, e stanno soprattutto nella più italiana delle nostre colonie dimenticate: l’Eritrea. Un Paese che era abitato da italiani, che ha conservato gelosamente ad Asmara l’architettura della città coloniale fascista, un Paese dove si beve il cappuccino, dove i bar si chiamano bar e i caffè caffè, dove gli italiani sono stati i colonialisti che hanno liberato questa striscia di terra sul Mar Rosso di pietre e sabbie, altipiani e cieli azzurri, dal giogo insopportabile dell’impero copto abissino; un Paese che ha volenterosamente fornito a Mussolini gli ascari che lo hanno portato a conquistare Addis Abeba e a deporre l’unico monarca cristiano dell’Africa, a far prigioniero l’unico Stato africano indipendente, a credersi erede della regina di Saba e della sua ricchezza.
Un sogno durato poco e finito nel sangue e nella merda della Guerra Mondiale, fino al 1941 quando Amedeo di Savoia si arrese alle truppe britanniche. Ma quegli ascari si sono trasformati presto in guerriglieri, e hanno preteso con le armi l’indipendenza dall’Etiopia e l’hanno ottenuta nel 1993, dopo che il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (Fple), annientato il filo-occidentale Fronte di liberazione eritreo, si era unito ai movimenti etiopi anti-Derg e la dittatura etiope era caduta nel 1991, frutto maturo del crollo del comunismo sovietico.
Eppure il liberatore dell’Eritrea, il capo indiscusso del Fple e l’eroe della guerra di liberazione, Iaias Afewerki, si professava ancora socialista e grandi erano le speranze dei popoli dell’Eritrea che questo tigrino facesse uscire il Paese dagli anni bui dell’occupazione e della guerra infinita, da una vita di stenti e pericoli che aveva ingrossato la diaspora Eritrea in Italia, diventata retrovia della guerra di liberazione.
Invece l’Eritrea stava appena entrando in un incubo dal quale non riesce a svegliarsi. Afewerki divenne il primo ed ultimo presidente dell’Eritrea, cambiò il nome del Fple in Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia e cancellò dal Paese democrazia e giustizia, trasformandolo in una caserma a cielo aperto, scatenando guerre di confine con l’Etiopia, diventando il sostenitore e il mandante delle milizie islamiche somale in funzione anti-etiope e assicurandosi nello stesso tempo il sostegno di americani e francesi concedendo basi navali per sorvegliare l’imbocco del Mar Rosso e il traffico di petrolio, stringendo alleanze con le monarchie assolute sunnite del Golfo, sprofondando l’Eritrea in un delirio di onnipotenza e povertà, in un regime claustrofobico che consegna un popolo di giovani ad anni i servizio militare obbligatorio dove sorvegliano la frontiera bollente e gelida di deserto e rocce che divide questa striscia di terra da un altro Paese, l’Etiopia, ormai governato da tigrini come Afewerki e come molti di loro.
Ed è proprio in Etiopia che fuggono i giovani senza futuro dell’Eritrea, per poi prendere la strada del Sudan o del Somaliland, neri agnelli pieni di speranza scortati da lupi famelici che lungo la strada li derubano, li violentano, li feriscono e li uccidono, lasciando una scia di sangue e disumanità nei deserti sudanesi e libici, fino ad arrivare alle coste dove li aspettano squali altrettanto feroci con le loro barche a perdere, con le loro sferze, trafficanti di carne umana che li abbandoneranno al loro destino su legni marci o li getteranno in mare come merce ormai scaduta.
Sono questi gli uomini e le donne che muoiono davanti alle coste siciliane, sono gli eritrei che non potranno più tornare nemmeno da vivi nel loro Paese fino a che ci sarà Afewerki e il suo branco di iene che si è mangiato la speranza della rivoluzione. Sono uomini e donne, giovani come e più dei nostri figli, che partono con la morte nel cuore, non sapendo cosa il regime riserverà alle famiglie dei traditori, percorrendo le stesse stazioni del calvario dove in un tempo ormai scordato da chi pubblica la vita di Mussolini a puntate sono stati crocifissi molti nostri migranti, per arrivare al Paese del Cappuccino e del Caffè, dove le Gaggia per fare l’espresso sono nuove e si parla una lingua che i loro nonni ancora biascicano.
Se passato il lutto e l’emozione ci mettessimo a ripercorrere quel loro e nostro calvario, ritroveremmo le ragioni di quei morti senza nome sprofondati nel Mediterraneo, della speranza e della disperazione di quelli (molti, ma molti di più) che passano le frontiere terrestri orientali dell’Europa azzannati dagli stessi lupi e squali spietati, ritroveremmo la nostra vergognosa dimenticanza di un passato che abbiamo ridotto all’italiano brava gente, al “Gli abbiamo portato le strade”. Quelle stesse strade che un neocolonialismo straccione dell’anima e della politica non ha saputo mantenere sicure per quelli che, armi e iprite alla mano, avevamo dichiarato nostri sudditi.